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Westworld 2 – la creazione di un nuovo Olimpo

Tempo di lettura: 3 minuti

Insomma, per concludere, il world-building narrativo di Westworld (così come quello di True Detective in parte come quello del Trono di Spade) è una sapientissima fusione di suggestioni iniettate a poco a poco nella coscienza dello spettatore. Un nobilissimo frankenstein meta-concettuale nel quale il tutto è ben superiore alla somma delle parti perché riesce a rivolgersi alla nostra parte filosofica senza però trascurare quella più moderna.

So che non è elegante, citarsi non lo è mai, ma riprendo la conclusione del mio pezzo su Westworld pubblicato qui a fine 2016 e rilancio: Nolan e la Joy hanno tenuto il timone ben saldo in quella direzione.
Da un punto di vista della struttura narrativa questa seconda stagione è decisamente meno brillante. Mi spiego: le prime quattro puntate si arrotolano intorno allo stesso tema, suggeriscono che Dolores (la sempre bravissima Evan Rachel Wood) stia diventando come gli esseri umani. Spietata, cinica, vendicativa e collerica. Il gioco di incastri temporali è più dichiarato ma non per questo più semplice da seguire: l’impressione a volte è che Nolan e la Joy abbiano per forza voluto giocare col tempo, come se l’eredità della prima stagione avesse condizionato anche lo svolgimento della seconda.
Ma, come accadeva per Westworld 1, anche in questo caso il tutto è di gran lunga molto superiore alla mera somma delle parti.
Questa stagione raccoglie al suo interno potentissime suggestioni che arrivano dalle fonti più disparate.
Macchine che costruiscono macchine, Dolores che diventa la sorgente dalla quale Ford (Anthony Hopkins) attinge per ricreare Arnold (Jeffrey Wright). Perciò l’uomo in qualche maniera abdica al suo ruolo di nuova divinità e lo cede alla macchine, in una sorta di drammatica anticipazione di ciò che verrà.
E poi la raffigurazione biblica di uno dei cavalieri dell’Apocalisse, Clementine, che avanza sul cavallo bianco portando disordine e distruzione mentre i residenti marciano nell’altrettanto biblica raffigurazione della fuga verso il Mar Rosso, con la frattura che si apre verso l’Oltre Valle al posto delle acque del mare che si dividono.
E ancora, l’estremo potere della parola scritta se viene trasformata in realtà dalla forma post-umana dei residenti: lo sceneggiatore Lee Sizemore (Simon Quarterman), essere umano mediocre, trova ispirazione e motivazione da ciò che impara dai residenti. Se Dolores è una divinità collerica e distruttrice, Maeve (una bravissima Thandie Newton) rappresenta invece un dio capace di farsi amare, di migliorare i propri adepti. Raccoglie la fedeltà dei suoi fedeli e riesce a convertire persino il gretto e cinico Lee Sizemore.
Questo ci suggeriscono Nolan e la Joy: fanno un passo di lato e tre avanti, iniziano a configurare un Olimpo contemporaneo le cui divinità sono racchiuse nelle perle scure che Dolores/Hale porta via da Westworld.
Jean Ray nel romanzo Malpertuis diceva che gli uomini avevano creato gli dei dell’Olimpo dandogli forza con la fede: alla stessa maniera Ford ha progettato, allevato e addestrato divinità molto diverse tra loro ma in grado di ispirare i propri simili o gli esseri umani, di attingere forza da chi crede in loro.
Al netto di un’armonia inferiore, questa seconda stagione di Westworld continua e potenzia il percorso iniziato da Robert Ford e da Arnold, continua un viaggio epico attraverso e oltre la mitologia letteraria e culturale dell’occidente.
Fa di più. Getta le basi per un’evoluzione ancora più inquietante: il terreno di scontro tra Dolores, Bernard, Maeve e gli altri ex-residenti è il nostro pianeta. La scena post-credit inquieta sia per il suo contenuti che per tutti i sottotesti: la punizione di William (Ed Harris) è terribile, ma ciò che è rimasto del mondo potrebbe essere ancora peggio.

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