Un lavoro. Un compagno o una compagna di vita. Un’utilitaria e, soprattutto, una casa. Una casa che permetta progettualità, che consenta di pianificare il futuro, che faccia da apripista per tutto quello che verrà dopo. Famiglia e figli al primo posto. Ecco le cose normali, consuete e indispensabili che Lorcan Finnegan alla regia e Garret Shanley prendono e trasformano in un incubo surreale. Ecco l’essenza di Vivarium, pellicola fanta-thriller del 2019.
L’ESSENZIALE È VISIBILE AGLI OCCHI
Gemma (Imogen Poots) e Tom (Jesse Einsenberg) sono giovani e con una percorso di vita tutto da costruire. Insegnante lei, giardiniere lui stanno per fare insieme il primo vero passo: comprare una casa. Non è facile. I costi, la vicinanza alla città, il quartiere, la tranquillità: tutto cose che li hanno già costretti a escludere alcune proposte. È con questo spirito che entrano nell’ufficio della Prospect Properties, agenzia immobiliare che sta promuovendo la case appena costruite del vicino-ma-non-troppo insediamento di Yonder (che, caso strano, in inglese significa Laggiù). Yonder è un quartiere bizzarro – così come è bizzarro Martin, l’agente immobiliare della Prospect -, un quartiere con case tutte uguali, arredate, speculari, prodotte in serie. Un quartiere bizzarro con strade bizzarre e sotto un cielo bizzarro, tutto nuvole a forma di nuvole.
Tom e Gemma sono tra i primi – se non i primi – potenziali acquirenti tanto che Yonder è pronto ai nuovi arrivi ma ancora desolato. Dormiente. In attesa della vitalità di giovani coppie ad animarlo. Martin ce la mette tutta, mostra ai due giovani la casa, cerca di sedurli con fragole e Champagne già pronti in frigorifero e poi, approfittando di un attimo di distrazione, ecco che Martin sparisce. Tom e Gemma cercheranno di lasciare Yonder, cercheranno di farlo in tutti i modi ma il quartiere non ha intenzione di permetterlo. I due giovani sono intrappolati tra le case tutte uguali, con giardini tutti uguali incastrati tra vie tutte uguali: il civico numero 9 non vuole lasciarli andare.
A complicare il tutto, Tom e Gemma trovano una scatola nel giardino di casa: una scatola che contiene un neonato. Da qui in poi, l’incubo surreale di Lorcan Finnegan preme sull’acceleratore.
LA CINICA VIA DELL’OCCIDENTE
Vivarium è un film fortemente simbolico. Una pellicola che sfrutta le suggestioni della fantascienza e le dinamiche del thriller per picchiare duro, e picchiare dove fa male. Si insinua nelle debolezze di un presente – il nostro – nel quale lavoro, casa e famiglia sono un mantra ripetuto con così tanta ostinazione da diventare ossessione. Proprio come il cuculo che occupa i primi minuti del film, Vivarium si insedia tra i pilastri del comfort contemporaneo – appunto lavoro, casa e famiglia – e inizia il suo inesorabile e micidiale lavoro di erosione. Si sbarazza di tutto quello che pensavamo essere utile e ci mostra il colossale inganno.
Così il lavoro, o meglio la metafora di un lavoro ripetitivo e uguale a sé stesso, diventa l’unico appiglio di Tom. Qualcosa da fare perché sì, qualcosa che porta fuori di casa la mattina e che a volte non fa nemmeno rientrare la sera. Qualcosa che viene fatto perché possiamo farlo e che finisce con l’assorbire ogni singolo attimo della nostra giornata, della nostra settimana, della nostra vita.
Così il ruolo di madre di Gemma, un ruolo che si ritrova a dover interpretare suo malgrado, ha il sapore acre di qualcosa di vecchio, retrogrado, ottocentesco e ben poco contemporaneo. Una madre deve necessariamente dare la vita per i figli? Essere in funzione dei figli? Peggio ancora. Finnegan mostra ed estremizza uno stereotipo micidiale: l’uomo che lavora, lavora e non fa altro che lavorare. La donna – in questo caso nemmeno madre, ma che diventa madre in quanto donna – che si occupa del piccolo. Che lo comprende, che lo protegge, che empatizza. Questa visione manichea, questo approccio stereotipato, Finnegan lo impugna come un’arma e ce lo sottopone a volte nascondendolo a volte rendendolo estremo tra le ombre senza colore di Yonder.
E quando tutti sono impegnati a interpretare il loro ruolo – Tom in un lavoro alienante, Gemma assorbita dal suo ruolo di madre-non-madre, il bambino impegnato a sabotare con comportamenti egoistici e ripetitivi l’equilibrio della coppia – ecco che Tom e Gemma piano piano si allontanano. La complicità cede il posto al distacco. La vita occidentale, mi spingo persino a dire il modello capitalistico per come è concepito oggi, prende intenzioni, aspirazioni e sogni e li mastica. Poi li sputa sacrificando ogni frammento di intimità fisica e mentale. La sentenza di Finnegan, per quanto resa più colorata dalle sfumature fanta-thriller, non lascia via di scampo.
CIRCOLARITA’
Finnegan chiude il cerchio della sua narrazione. Lo fa tessendo un fil rouge nemmeno tanto sottile tra inizio e fine, un filo che tira, tira con forza, fino a piegare i confini della storia di Tom e Gemma e farli aderire quasi completamente ai primi minuti della pellicola, alla sequenza della nascita di un piccolo di cuculo.
Chiude il cerchio non lasciando alcuna via di scampo perché – ce lo ha detto sin dai primi minuti di Vivarium – si tratta di un cerchio innestato nell’ordine naturale delle cose. O meglio nell’ordine che noi abbiamo reso naturale. Il parassitismo del cuculo funziona perché inserito all’interno del suo specifico contesto, delle dinamiche evolutive, della prevedibilità. Esattamente così come il Vivarium di Yonder. E da questa circolarità, lo dimostra il fatto che il cuculo non sia ancora estinto, non si può uscire.