Inauguro con questo articolo quello che potrebbe diventare una appuntamento fisso (ma rigorosamente aperiodico): micro-commenti tripli su film che ho visto, che non mi hanno fatto impazzire, ma che possono avere qualcosa di buono e che si ritrovano loro malgrado uniti da un sottile (e forse improbabile) fil-rouge. Oggi tocca a The Room: la stanza del desiderio, Kadaver e Voces. Cosa li accomuna? Il fatto di mostrare (o di affrontare) una realtà fragile, ingannevole e illusoria.
Il motore narrativo di questa pellicola diretta dal francese e poliedrico Christian Volckman orbita tutto intorno a uno dei più antichi dilemmi che tormentano l’insaziabile ingordigia dell’uomo: cosa succederebbe se davvero tu potessi avere tutto quello che desideri?
Kate e Matt (una Olga Kurylenko e un Kevin Janssens che portano a casa la giornata di lavoro fare straordinari) si trovano ad affrontare proprio questa improbabile eventualità: una strana stanza della casa nella quale si sono appena trasferiti sembra infatti avere proprio questo potere. Chiunque vi entri vedrà esauditi i propri desideri potendo chiedere davvero qualsiasi cosa. Volckman dedica una certa attenzione alle suggestioni estetiche della stanza e di tutto l’appartato necessario a farla funzionare. Grovigli di cavi, la porta della stanza fatta di metallo con simbologie – compresa la chiave che la apre – capaci di richiamare dimenticati riti alchemici. Tutto intorno i tormenti di Matt, un pittore che cerca di vivere d’arte (non credo sia un caso che anche il regista Christian Volckman sia pittore), e le incerte fragilità di Kate e di una gravidanza perduta che teme di non poter più affrontare.
Il viaggio dei due verso un vortice di dissolutezza è piuttosto repentino e in questo Volckman manca l’appuntamento con una struttura equilibrata, quasi come se volesse liquidare quella parte in fretta per potersi dedicare alla svolta narrativa di The Room. Una volta che si può avere tutto, che i soldi non sono più un problema, una volta che si trascorrono giornate concedendosi i lussi (e le lussurie) più sfrenati, cosa rimane? Un desiderio irrisolto. Qualcosa che, in apparenza, la Stanza non può dare. E qui, forse con un approccio un filo manicheo, Volckman cala il suo asso. Kate, irrisolta e forse sacrificata all’ombra dell’ambizioso Matt, compie l’ultimo e definitivo passo: crea la vita prendendo una scorciatoia che non può portare a niente di buono.
Volckman inserisce poi l’outsider, un assassino che ha lordato di sangue la casa in cui vivono Kate e Matt, aggiunge una clausola vincolante al potere delle stanza e aspetta di vedere cosa succede dedicando più attenzione ai dettagli che all’equilibrio complessivo. Il risultato? Idee estetiche e concettuali interessanti, una sopra tutte l’utilizzo che un bambino può fare della stanza nella sua visione semplificata dal mondo e il la corruzione vitale rappresentata dal desiderio. Abbastanza coraggio nell’osare, di certo eredità genetica del cinema francese di genere. Ma anche una debolezza di fondo che cerca di ammorbidire qualcosa che potrebbe (dovrebbe?) essere ben più cattivo. Il mondo fittizio creato dal potere della stanza, l’illusione di qualcosa che si pensa di avere ma che in realtà non ci appartiene è la prima tappa di questo viaggio in tre tempi.
La seconda tappa di questo viaggio ci porta in Norvegia dove l’esordiente Jarand Herdal scrive e dirige un horror post apocalittico con molto concetto ma una realizzazione frettolosa.
Leonor, Jacob e la piccola Alice cercano di sopravvivere tra le strade affamate di una città messa in ginocchio da un imprecisato conflitto nucleare. Il cibo, più di ogni altra cosa, è la preoccupazione principale. Perciò quando inizia a spargersi la voce di uno spettacolo teatrale gratuito (con cena annessa) patrocinato dal mecenate Mathias, i tre decidono di non farsi scappare l’occasione complice anche la precedente vita da attrice di Leonor. La villa di Mathias è tanto decadente quanto affascinante, gli invitati entusiasti del cibo e della maestria con la quale il loro anfitrione li intrattiene. Unica regola? Gli ospiti devono indossare una maschera per distinguersi dagli attori che popolano stanze e corridoi della villa.
Inizia lo spettacolo e tutti gli invitati possono scegliere quale attore – e quale storia – seguire, letteralmente, addentrandosi nel vasto palco che l’intero edificio rappresenta. Ovviamente niente è come sembra e la realtà si frammenta, soprattutto quando i tre decidono di togliersi la maschera. Herdal non serve un cattivo menu allo spettatore. L’idea di fondo, quella di un Grand Guignol meta-teatrale, funziona così come funzionano la fotografia, la caricaturalità mai pacchiana di alcune situazioni e di alcuni personaggi (a partire da Mathias) e anche alcuni richiami a un cinema horror più classico (e banale).
La scelta di intrecciare la vita pre-nucelare di Leonor (attrice teatrale impegnata nel Macbeth) con quella post-apocalittica dello spettacolo è interessante e aprirebbe tutta una serie di possibili riflessioni sulla scelta del Macbeth, sulla figura di Mathias, sulle tre Moire e sul senso della vita, e della morte che permea Kadaver (a partire dal titolo). Purtroppo il regista lascia alla suggestione dello spettatore questi possibili sviluppi e banalizza il suo costrutto narrativo facendolo diventare un torture-surivival horror. C’è un guizzo, sul finale, qualcosa che riporta al centro di tutto la vita oltre il palco che diventa vita SUL palco ma è, appunto, un fil rouge piuttosto sottile. Come quelli che recide Atropo, una delle tre Parche, quella destinata a spezzare la vita di tutti noi.
Dopo la Francia e dopo la Norvegia, arriviamo in Spagna per l’ultima tappa di questo breve viaggio. La Spagna ha un tradizione l’horror piuttosto consolidata- Jaume Balaguerò ne è il rappresentante più titolato – ma questo Voces fa qualche passo di lato rispetto a ciò che sarebbe legittimo aspettarsi da un horror iberico. Al netto della presenza di un bambino – per Balaguerò i bambini sono veri e propri catalizzatori, nel bene e nel male – Voces strizza troppo l’occhio alle produzioni più canoniche d’oltre oceano. A dirigere questo film l’esordiente Ángel Gómez Hernández, classe 1988, che sembra voler offrire un sincero tributo a tutto il cinema horror che in qualche modo lo ha formato prima come appassionato che come regista. Anche se l’età non può essere un alibi: Ari Aster è nato nel 1986 ma il suo cinema ha già un carattere autonomo incredibile. La trama di Voces? Una coppia (Sara e Daniel) e il figlio di nove anni Eric si traferiscono in una grande villa ma ben presto misteriose ‘voci’ iniziano a tormentare il bambino e insieme a queste cominciano anche a verificarsi terribili incidenti.
In Voces c’è un po’ di The Conjuring, un po’ di BabyCall, un po’ di White Noise, un po’ Amityville e tanti riferimenti estetici e concettuali a quelle che sono le pellicole più note a tema ‘casa infestata’. Hernández omaggia, cita, replica ma riesce comunque a non esagerare mai mantenendosi sempre sul filo, riesce a non cadere nel plagio incolore. E riesce tutto sommato a offrire il suo punto di vista anche se il tema delle voci che sussurrano attraverso i walkie-talkie, quello della più classica casa infestata da un potere antico e malvagio, i sotterranei che rivelano un reliquiario esecrabile, tutte queste cose di certo non colpiscono per la loro originalità. Soprattutto a un pubblico navigato.
La cifra narrativa migliore Hernández la conserva proprio per il filo rosso che unisce queste tre pellicole. Il mondo illusorio e ingannevole di Voices, una mistificazione che ci viene rivelata solo alla fine del film, arriva in qualche modo a giustificare l’apparente fretta di alcune scelte fatte dal regista in precedenza. La fretta, l’apparente rincorsa a qualcosa che capace di tener viva l’attenzione nell’economia di una pellicola che fatica a decollare, trovano una loro (parziale) giustificazione negli ultimi minuti del film.
Poi, e in parte Hernández paga il pedaggio di questa scelta sforzandosi di mettere troppe cose tutte insieme, il regista butta le basi per la sua prossima pellicola, un film ispirato a quella pazzesca figura ecclesiastica che era l’esorcista Gabriele Amorth. Nel complesso troppe cose tutte insieme e la possibile certezza di una tragedia annunciata: se davvero il prossimo film di Hernández avrà a che fare con Amorth il confronto con l’Esorcista di Friedkin sarà inevitabile. E uscirne con le ossa rotte sarà più che una semplice probabilità.
Concludendo: tre pellicole, tre nazioni, tre storie che orbitano comunque intorno a un edificio e ai misteri che questo nasconde. Alla sua capacità di deformare la realtà offrendo ai protagonisti visioni alternative, e terribili. Una visione ‘del mondo oltre il mondo’ che è anche un po’ figlia dei nostri tempi tormentati.
E in tutto questo l’Italia? L’Italia in realtà non è rimasta a guardare. Però il suo film che in qualche maniera richiama questi temi, che affronta una realtà che non è quella che sembra, è sinceramente troppo superiore a The Room, Voices e Kadaver per essere inserito in questa lista. Parlo di The Nest (2019) di Roberto De Feo, e ne ho parlato qui.