Ci sono romanzi che nascono prima di tutto come esercizi di stile e che poi, magari, si condensano intorno a una buona idea riuscendo a portare avanti trama e personaggi in modo più o meno convincente. 'Guerra agli umani' secondo me appartiene a questa categoria. Tutto si concentra (o dovrebbe concentrarsi) intorno al protagonista Marco 'Walden' che decide di abbandonare fasti e lusinghe della società per ritrovare una vita più agreste. Si improvvisa supereroe e trasforma una grotta dell'Appennino nella sua nuova dimora. Ha un obiettivo quasi impossibile: convertire alla nuova vita troglodita l'intera umanità. Le sue ambizioni si incrociano con la sparizione di un San Bernardo di nome Charles Bronson, con illegali combattimenti tra uomini e cani e con ambientalisti decisi a tutto pur di salvare la natura dall'uomo.
Dopo il successo indiscusso e del tutto meritato della prima stagione, c’erano alcune incognite che, in potenza, gettavano qualche ombra sul proseguo di questa straordinaria saga fantasy. Una su tutte: come se la sarebbero cavata sceneggiatori e registi (soprattutto questi ultimi) con le battaglie su vasta scala proprie del secondo capitolo delle Cronache? Non era una scommessa da poco perché se la prima stagione, chiusasi con la morte di Eddard Stark e con l’inizio della guerra dei cinque Re, aveva svolto alla perfezione il suo ruolo preparatorio adesso non sarebbero bastate le ottime location esterne. C’erano eserciti da mettere sulla scacchiera e flotte immense da disporre tra Roccia del Drago e le Rapide Nere.
Le configurazioni iniziali della curva frattale offrono scarse indicazioni sulla struttura matematica sottostante. (Ian Malcom)
La vita, si sa, è fatta di spartiacque. Eventi eccezionali (o banali) che chiudono un capitolo e ne aprono un altro cambiando il nostro modo di percepire la realtà e di relazionarci con essa. Questa regola vale anche per il cinema, un insieme di mille vite vissute attraverso i milioni di personaggi del grande schermo.
[rating:4.5]
Quando un artista decide di trasmettere attraverso le sue opere qualcosa di molto personale ci sono due possibili risultati: il primo è che si trattava di esperienze talmente intime da produrre qualcosa di troppo criptico e scentrato (penso ad 'Antichrist' (2009) di Lars Von Trier, per dirne uno), il secondo è che a prescindere dall'intimismo è talmente tanta la passione che l'opera nella sua completezza non può fare a meno di coinvolgere (penso al romanzo 'Misery' (1987) di King, una metafora sulla dipendenza). 'Cloud Atlas' appartiene al secondo caso.
'Aliens from space' pubblicato nel 1958 sotto lo pseudonimo di David Osborne per mano quel geniaccio di Robert Silverberg, approdò sul mercato italiano nel 1961 (collana Galassia della casa Editrice La Tribuna) con il titolo 'Stranieri dallo spazio'. Perciò parliamo di un romanzo scritto undici anni prima di quel fatale 20 luglio del 1969, data dell'allunaggio americano, e due anni prima di quel 12 aprile 1961 giorno in cui Jurij Gagarin divenne il primo uomo in orbita. Da un punto di vista dell'immaginario dell'epoca, perciò, parliamo di un romanzo assolutamente vergine. Cioè con ancora un vastissimo mondo da esplorare, privo di preconcetti dettati dal contatto diretto con l'uomo e lo spazio e privo di ogni ricorrenza scientifica troppo invasiva. Di cosa parla il romanzo?
La mia prima lettura de 'Lo Hobbit' (1937, pubblicato però in Italia nel 1973) risale ai gloriosi tempi delle scuole medie, per merito di una professoressa di italiano decisamente illuminata. Avevo ricordi piuttosto confusi in merito e in previsione dell'imminente uscita cinematografica, ho deciso di rileggerlo. E la cosa mi ha richiesto poco più di un paio di giorni.
Da sempre (e per sempre) si discute (e si discuterà) del rapporto tra letteratura e cinema. O meglio, tra narrazione letteraria e relativa trasposizione cinematografica. E più o meno dal 1903, con il primo cortometraggio muto tratto dal 'Don Chischiotte' di Cervantes, che il cinema attinge per le sue produzioni a realtà letterarie più o meno di successo. E questo è terreno consolidato con le solite ombre (tante) e le solite luci (un po' meno): affidabilità della trasposizione in termini di trama, fedeltà ai personaggi e capacità di una sintesi coerente (difficilmente salvo rare eccezioni, e 'Lo Hobbit' potrebbe essere una di queste, vedere un film richiede più tempo che leggere il corrispettivo romanzo).
Quando si sfogliano le prime pagine di un romanzo (breve) scritto dall'autore e sceneggiatore de 'L'Esorcista, (1973)' l'aspettativa non può essere che due o tre gradini più alta del normale. In più, quando le prime pagine non convincono, scatta quel meccanismo di 'ricerca della rivalsa' per cui ci si aspetta, da un momento all'altro, che il romanzo decolli. E se questo non dovesse succedere?
Non posso certo dire che leggere i romanzi di Donaldson in inglese sia una passeggiata perciò le premesse di questa recensione sono le stesse che avevo fatto, al tempo, per le mie considerazioni su 'Fatal Revenant', il precedente (e secondo) capitolo della quadrilogia. Aggiungo che questo romanzo in particolare, e l'ho scoperto frugando un po' nei forum anglofoni, ha un livello di difficoltà linguistica molto elevato anche per lettori madrelingua perciò le mie considerazioni esulano dagli aspetti stilistici che, francamente, non sono in grado di valutare.
E dopo un'attesa nemmeno troppo lunga, ecco finalmente il completamento della trilogia 'Nocturna' iniziata con il primo volume 'La Progenie' ('The Strain, 2009), continuata con 'La Caduta' (The Fall, 2010), che già avevo recensito, e infine conclusasi con questo 'Notte Eterna. Avevamo lasciato il mondo in pessime mani: devastato da una grappolo di esplosioni nucleari, il cui effetto principale era stato quello di condannare la Terra alle tenebre persistenti (ceneri radioattive coprono il cielo per quasi la totalità del giorno), è divenuto l'ecosistema perfetto per il 'Padrone' e per la sua orda di vampiri.