Che la Forza conferisca ai suoi fruitori capacità di preveggenza è cosa risaputa (Anakin e Luke vedono frammenti di un tragico futuro quando fondono il loro spirito all'energia mistica), ma che questo potere si potesse trasmettere anche agli appassionati come il sottoscritto è una novità!
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Quando un artista decide di trasmettere attraverso le sue opere qualcosa di molto personale ci sono due possibili risultati: il primo è che si trattava di esperienze talmente intime da produrre qualcosa di troppo criptico e scentrato (penso ad 'Antichrist' (2009) di Lars Von Trier, per dirne uno), il secondo è che a prescindere dall'intimismo è talmente tanta la passione che l'opera nella sua completezza non può fare a meno di coinvolgere (penso al romanzo 'Misery' (1987) di King, una metafora sulla dipendenza). 'Cloud Atlas' appartiene al secondo caso.
Ebbene sono passate appena due settimane da quando mi ero lanciato in sperticate riflessioni sul futuro della Saga delle Saghe, ed ecco che parti dei miei ragionamenti trovano conferma grazie a una smentita. Il vulcanico (e vulcaniano) J.J. Abrams infatti, dopo aver escluso la possibilità di trovarsi a dirigere il prossimo Star Wars proprio per la sua etica da trekker e la voglia di restare un semplice fan di Guerre Stellari, adesso fa marcia indietro. Da un giorno e mezzo, infatti, impazza nell'etere una nuova profezia: il creatore di Lost dirigerà Episodio VII.
'Aliens from space' pubblicato nel 1958 sotto lo pseudonimo di David Osborne per mano quel geniaccio di Robert Silverberg, approdò sul mercato italiano nel 1961 (collana Galassia della casa Editrice La Tribuna) con il titolo 'Stranieri dallo spazio'. Perciò parliamo di un romanzo scritto undici anni prima di quel fatale 20 luglio del 1969, data dell'allunaggio americano, e due anni prima di quel 12 aprile 1961 giorno in cui Jurij Gagarin divenne il primo uomo in orbita. Da un punto di vista dell'immaginario dell'epoca, perciò, parliamo di un romanzo assolutamente vergine. Cioè con ancora un vastissimo mondo da esplorare, privo di preconcetti dettati dal contatto diretto con l'uomo e lo spazio e privo di ogni ricorrenza scientifica troppo invasiva. Di cosa parla il romanzo?
Dietro a questo titolo e ai suoi legami con la realtà fumettistica degli X-Men di cui parlerò tra poco, si nascondono molte e molte cose. La prima di tutte è, per citare Star Wars, la chiusura del cerchio. In che senso? Nell'unico senso possibile: quello del regista. Mr. 'I soliti sospetti' Bryan Singer, che aveva fatto un lavoro magistrale girando i primi due X-Men (e che aveva abbandonato il terzo capitolo per gettarsi a capofitto sul fallimento di Superman Returns (2006)), si ricongiunge alla sua creatura. Dopo l'X-Men: First Class di Matthew Vaughn (2011), che aveva ridato nuovissima linfa a una serie incamminata verso un nemmeno tanto lento declino, ecco che il sequele del prequel (ditelo veloce, se riuscite) torna nelle mani dell'ex bambino prodigio. Cosa dobbiamo aspettarci?
E mentre la Disney colleziona rifiuti più o meno espliciti da parte di noti registi nel tentativo di trovare qualcuno che dia vita alla Prossima Trilogia (al momento si è aggiunto a J.J. Abrahams, nel rifiuto, anche Guillermo Del Toro), noi appassionati cosa facciamo? Quello che ci riesce meglio, ovvio, speculiamo, immaginiamo, ci preoccupiamo e non vediamo l'ora di rispolverare le spade laser che dal 2005 non hanno più visto una sala cinematografica. Le cose, di sicuro, sono destinate a cambiare.
Era il 1978 quando Richard Donner portò sul grande schermo il primo e il più grande di tutti i supereroi: Superman. Lo fece reclutando il perfetto e compianto Christopher Reeve per il ruolo di Kal-el e quel geniaccio di Gene Hackman per l'arcinemico Lex Luthor.