Questo articolo è stato pubblicato su Nocturno 144
“Era figlio dei tempi in cui il mondo viveva sotto il dominio dell' oro nero, e i deserti brillavano per le fiamme delle gigantesche torri che estrevano il petrolio. Ora tutto é distrutto, scomparso. Come e perché non lo ricorda piu' nessuno; ma é certo che un immane conflitto anniento' due grandi potenze. Senza il petrolio l' uomo torno' alle sue origini primitive, e tutte le sue macchine favolose andarono in rovina” Interceptor: il guerriero della strada (1981)
Era il 1979 quando l’Unione Sovietica fece la sua sconvolgente mossa nello scacchiere internazionale invadendo l’Afghanistan, allora considerato potenza amica degli Stati Uniti d’America. La guerra fredda, un incubo che dopo i terribili anni sessanta sembrava avviato a una pacifica soluzione, tornò a gettare la sua spettrale ombra sul mondo intero. Era il 1979 quando George Miller, un giovane regista australiano di trentaquattro anni, fuse il terrore di un conflitto tra USA e URSS con la crisi energetico-sanitaria che il suo paese stava vivendo in quel periodo. Chi decide di tratteggiare un futuro distopico cavalca l’immaginazione sulla scia di un cinico what if e lo utilizza come propellente per la sua creatività. La domanda che si fece George Miller era una soltanto: cosa succederebbe all’Australia nel caso di una guerra nucleare? I tre capitolo di Mad Max (1979, 1981 e 1985) furono la risposta.
[rating:4.5]
Alla fine, è arrivato. Il manifesto dell'amore che Nolan nutre nei confronti dello spazio, della fantascienza e dell'uomo è sbarcato nelle nostre sale pochi giorni fa e ha lasciato il segno. Premetto che 'Interstellar' non è il miglior film di Nolan per un semplice motivo: questa volta il regista inglese non è riuscito a tenere lontano il suo cuore dalla regia. Accanto alla sua sublime tecnica cerebrale, questa volta si è insinuato anche il cuore di un uomo che da sempre sogna le stelle. Questo fa di 'Interstellar' un film riuscito a metà? Per niente. E' e resta un capolavoro.
[rating:4.5]
"Ecco un'idea che avrei voluto avere io" questa è la prima cosa che ho pensato guardando 'Snowpiercer' di Bong Joon-Ho. Ispirato a una graphic novel francese, 'Le Transperceneige', diretto da un regista coreano che sa il fatto suo e affidato a una cast di impronta hollywoodiana (Chris Evans sopra tutti) dimostra una volta per tutte come il terzetto reboot, remake, sequel non sia l'unica risposta alla crisi creativa del cinema di genere. Anzi.
Robocop (2014), Carrie (2013), La casa (2013), Total Recall (2012) e la lista potrebbe continuare. Viviamo un periodo storico nel quale, per tanti motivi, l'originalità cinematografica sembra fiacca e priva di mordente. Molte delle energie creative più fresche preferiscono il piccolo schermo e il proliferare delle serie TV, che spesso si rivelano piccolo gioielli narrativi, ha senza dubbio azzoppato gli slanci creativi che prima erano propri del grande schermo. E allora ecco che per non correre rischi al botteghino e per 'vincere facile' la folta schiera dei remake (o dei reboot) si arricchisce di nuovi capitoli. E di nuove delusioni. Questa riflessione nasce dal recente 'Robocop' di José Padilha ma si potrebbe ben adattare anche a pellicole 'originali' che soffrono tutte di difetti molto simili. Ho l'impressione che una bella fetta delle produzioni americane si sia 'politicizzata'. Non nel senso di una presa di posizione rispetto a eventuali schieramenti politici. Ma piuttosto rispetto alle tematiche e al modo di affrontarle. Il cinema, o almeno un certo cinema di genere, ha la giusta ambizione di dare colore a un mondo a volte confuso o troppo indistinto. E' ancora così?
VOTO: [rating:3]
Che sia a causa di una crisi creativa dalla quale Hollywood non è mai veramente uscito o che sia dovuto a slanci altruistici (leggi: diamo la possibilità alle nuove generazioni di rivisitare i miti del passato), il mercato dei reboot/remake negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale con risultati che però, secondo me, non giustificano l’operazione. Alla pletora di pellicole riviste, modernizzate, migliorate o peggiorate si è aggiunta da pochi giorni 'Robocop' di José Padilha, già regista dei due riuscitissimi 'Tropa de elite' (2007 e 2010). Reboot o remake del 'Robocop' di Paul Verhoeven datato 1987?
L'idea che sta alla base di 'Elysium' è quanto di più originale, nel 2013, ci si possa aspettare: uno sparuto gruppo di individui prospera nell'agio più assoluto mentre la maggior parte degli esseri umani è costretta a una vita di sofferenza per garantire l'alto tenore di vita di quei pochi (situazione che, tra l'altro, si ripete tutti i giorni in ogni ufficio moderno). A partire dalla mitologia greca passando per 'La Macchina del tempo' di H.G.Wells e arrivando agli 'Hunger Games' (2012) (rabbrividisco per la citazione cinematografica) si tratta di uno dei temi più abusati della storia ma che, evidentemente, ha un fascino irresistibile. A tal punto da spingere il giovane e talentuoso Neil Blomkamp (classe 1979), fresco del successo low-cost 'District 9' (2009), verso la scrittura di una sceneggiatura 'originale' incentrata proprio su questo tema.
Non ricordava quando i primi barlumi di un pensiero indipendente avevano iniziato a manifestarsi. La coscienza di sé, quella, era sempre esistita ma i desideri no. Viveva di speranze, di ambizioni, di vendette, di avidità e di altruismo ma nessuno di questi gli apparteneva. Erano retaggio degli Altri che lo inondavano di tutto ciò che rendeva la loro vita ciò che era condensando in pochi istanti ambizioni di una vita intera. Da qualche parte però, nelle pieghe dei meccanismi che regolavano la sua esistenza, alcune di queste pulsioni avevano trovato terreno fertile per diventare qualcosa di diverso. Si erano fermate, sedimentando una sopra all'altra, e piccole radici erano state in grado di ancorarle a quei luoghi remoti privi di pensiero che costituivano la sua mente.
[rating:4.5]
Quando un artista decide di trasmettere attraverso le sue opere qualcosa di molto personale ci sono due possibili risultati: il primo è che si trattava di esperienze talmente intime da produrre qualcosa di troppo criptico e scentrato (penso ad 'Antichrist' (2009) di Lars Von Trier, per dirne uno), il secondo è che a prescindere dall'intimismo è talmente tanta la passione che l'opera nella sua completezza non può fare a meno di coinvolgere (penso al romanzo 'Misery' (1987) di King, una metafora sulla dipendenza). 'Cloud Atlas' appartiene al secondo caso.