Da sempre (e per sempre) si discute (e si discuterà) del rapporto tra letteratura e cinema. O meglio, tra narrazione letteraria e relativa trasposizione cinematografica. E più o meno dal 1903, con il primo cortometraggio muto tratto dal 'Don Chischiotte' di Cervantes, che il cinema attinge per le sue produzioni a realtà letterarie più o meno di successo. E questo è terreno consolidato con le solite ombre (tante) e le solite luci (un po' meno): affidabilità della trasposizione in termini di trama, fedeltà ai personaggi e capacità di una sintesi coerente (difficilmente salvo rare eccezioni, e 'Lo Hobbit' potrebbe essere una di queste, vedere un film richiede più tempo che leggere il corrispettivo romanzo).
Poco tempo fa mi sono espresso sul concetto di 'responsabilità', su come questo è stato travisato e deformato per compiacere la necessità di trovare responsabili, dove responsabili non ci sono. O di costruirci un alibi inattaccabile per l'immobilità sistematica che fa comodo a noi e soprattutto fa comodo agli altri. Altra cosa, ma che sono certo deve far capo agli stessi principi, è il senso del 'Controllo. Autori come George Orwell o come Alan Moore hanno dissezionato il concetto di 'Controllo' e lo hanno rimontato portando all'eccesso tutte quelle cose che temevano, che vedevano intorno a loro o che, in un qualche modo distorto e disperato, desideravano. Lo hanno fatto inventando regimi autoritari nei quali la responsabilità finiva per concentrarsi tutta nelle mani di pochi (fossero essi persone o autorità impersonali) e che, per genetica e costituzione, dovevano imporre un controllo serrato su tutti i componenti della società. Responsabilità, e controllo. Senza nemmeno sforzarsi troppo rimbalzano entrambi nello stesso concetto.