Skip to content Skip to footer

STRANE VISIONI DIGITAL

Tempo di lettura: 21 minuti

Strane Visioni Digital è una collana curata da Andrea Gibertoni.

Se uno di questi commenti dovesse convincerti alla lettura, fammelo sapere. E soprattutto fammi sapere se quello che ti ho consigliato ti è piaciuto.

Visioni simultanee di un ispettore e di un assassino – Lucio Besana

Che rumore fa una mente, quando si frattura? E che rumore fa una coscienza quando tenta di resistere a qualcosa che la spinge verso direzioni oscure, pericolose ma al tempo stesso desiderate e necessarie?

“Visioni simultanee di un ispettore e di un assassino” nasconde le risposte a queste domande. Le nasconde tra le ombre di un Paese che prospera sugli scheletri di un passato inabitabile. Le nasconde tra la minaccia incarnata da un assassino seriale e la necessità di catturalo di un ispettore capo.

Ma più di tutto le nasconde nella strenua, irrazionale, logica e disperata resistenza al motore di follia che si traveste da necessaria normalità. Un motore inesorabile, fisco e mentale, un ordigno filosofico e materiale che tende i fili della coscienza fino a rendere indistinguibile il conflitto tra ciò che si è e quello, quello che si deve e quello che si può, essere.

Tra normalità e follia. Tra le crepe e le fratture.

Le verità del Paese e dell’Ordine sono suggerite, mai esplicite ma per questo non meno potenti. Penetrano sotto pelle, prosperano nelle periferie descritte dall’autore, si svelano su scorci di un mondo meccanico che va avanti nonostante tutto.

E allora la follia diventa industria, metodo e scienza. La normalità ribellione e le chiavi, i lucchetti e le serrature finiscono con l’aprire tanto luoghi fisici quanti luoghi mentali.

E noi nel mezzo. Tra un ispettore capo e un assassino.

Lo puoi trovare qui:


Eco e Narciso – Carlo Salvoni

“Tutti noi abbiamo bisogno del conforto della nostra immagine riflessa, perché siamo terrorizzati da quello che gli altri possono vedere senza che noi ce ne accorgiamo”

Eco e Narciso. Un mito classico carico di inquietudini moderne. Un mito che Carlo Salvoni elabora ponendolo davanti – e non è un caso – a uno specchio contemporaneo. Perciò Narciso diventa una giovane donna che si innamora – no, si ossessiona – di un sé che non le appartiene. Un sé sfuggevole, un sé ‘altro’ per cui lei sente di non essere mai abbastanza.

E allora ecco che l’impianto quasi ultraterreno della storia declina – o almeno io l’ho percepito così – nella fin troppo attuale dinamica delle relazioni tossiche. Estremizzata, certo. Portata ai limiti della percezione naturale, anche. Ma cos’è una relazione tossica se non il sentirsi sempre inadeguati, l’aspettare un gesto, uno sguardo, una conferma? Qualcosa da qualcuno che non ci ama, forse non ci odia nemmeno: qualcuno che ci travolge con la sua ostile indifferenza.

E dall’altra parte Eco. Una creatura anche questa figlia dei nostri tempi. Indeterminata e indeterminabile, mimetica. Capace di essere tutto e niente.

Dall’intreccio dei vapori dei due punti dì vista, dei due presenti, si condensa una storia dell’orrore che si rivolge a due mondi.

Quello degli spiriti e quello di un presente che riflette ombre altrettanto inquiete.

Lo puoi trovare qui:


La funzione silvestre – Francesco Corigliano

“Qui ci vengono solo quelli che non vogliono venirci”

È il monito dell’autore. Un monito che uno dei suoi personaggi rivolge al protagonista de La funzione silvestre – protagonista declinato in uno scrittore in cerca di tranquillità e ispirazione – e che al tempo stesso rivolge a noi, a chi legge, aprendo più di qualche porta sul mondo ‘altro’ tanto caro alla letteratura weird.

Così la permanenza dello scrittore tra le colline e le foreste selvagge della Sila è ben presto destinata a diventare qualcosa di ben più complesso. Un viaggio, un percorso, un’escursione tra orrori a cui da una parte non può – non possiamo – far altro che sottrarci ma che dall’altra gli – ci – appaiono desiderabili.

Il lavoro di Corigliano è ricco di sfaccettature e forse alcune delle cose più interessanti si nascondono proprio tra le suggestioni di quelle ombre non-raccontate, di quegli angoli segreti del non-detto, di un sussurrato ma mai gridato.

Così la capacità di immaginare di chi scrive – del protagonista del racconto – diventa essa stessa catalizzatore di un portale che apre mente, anima e percezioni. Che rende permeabili. Che espone a pericoli verso i quali anime meno sensibili – o meno attente – sono di certo più refrattarie. Una metafora di quanto può essere solitaria e dolorosa la scrittura. D’altra parte è lo stesso autore che apre il suo racconto dicendo “Avevo bisogno di scrivere, e di conseguenza avevo bisogno di stare solo”.

Così l’anima silvestre della natura offre uno squisito gioco di ombre e riflessi, un contrappasso mistico alla mano dell’uomo che H.G. Wells con il suo Dottor Moreau aveva reso capace di trasformare gli animali in quasi-uomini. Qui la Sila di Corigliano, a suo modo, sembra capace di fare il contrario.

Ma se le bestie di Moreau si avvicinavano all’umanità attraverso il dolore e conservavano dentro di loro il desiderio di tornare ciò che erano, qui la natura opera in modo diverso e a chi legge – e a chi scrive – resta solo il senso di perdita, di nostalgia e di non-comprensione verso una natura che continua a cercarci senza mai trovare davvero nessuno che la ascolti.

Lo puoi trovare qui:


Chiaro di luna – Valentina Ramacciotti

Percepire un “oltre” rispetto a quello che viene raccontato in modo esplicito, percepire l’esistenza di strutture inquietanti delle quali ci vengono mostrate solo le sfaccettature più evidenti ma che si sviluppano in profondità deformando ogni cosa.

Strutture misteriose. Non esposte. Come quelle narrative che farciscono questo racconto, come la varietà di cose che ci vengono solo suggerite ma che sono lí. Evidenti e inquietanti.

Come l’altra faccia della Luna, di quella stessa Luna che diventa catalizzatore di una umanità “altra”, primordiale, selvaggia e violenta.

Ma forse, al tempo stesso, più libera. Un’umanità che la Luna con la sua nuova vicinanza dirotta su nuovi binari evolutivi. Che ne muta ambiente e socialità deformando i moti ondosi, allagando le città, sussurrando agli essere umani.

Ascoltare la sua voce in Chiaro di Luna è reato. Abbracciarne la seduzione è sbagliato.

O forse no. Forse tra le righe di questo racconto che flirta in modo appassionato con la fantascienza c’è dì più.

C’è la colpa dì non potersi (volersi?) accettare. Di fuggire da ciò che si è nel vano tentativo di essere quello che gli altri si aspettano da noi.

Lo puoi trovare qui:


Murena – Diletta Crudeli

“Marta è cosciente da tempo di essere la punta di un triangolo che diventa sempre più fiacca, un mollusco, una lumaca, un fungo corto al vapore, un ramoscello ormai esausto che galleggia in piscina.”

Ada, Lea e Marta. E poi Lea, Ada e Marta. E alla fine Marta, Lea e Ada. Tre ragazzine. Un triangolo. Fino a quando in un pomeriggio assolato nel cortile della scuola non cambia tutto, fino a quando quel masso non viene sollevato.

Giocano a fare le streghe, Ada e Lea. Giocano con i ragazzi che sono stupidi, scimmie. Giocano a fare le donne. E Marta? Marta aspetta, Marta le segue, Marta osserva. Ma è proprio Marta la prima a essere chiamata. E non è un caso che il mondo degli adulti cerchi sempre le solite, cocciute, risposte a qualcosa che non sa o non vuole più capire.

Murena è una storia occulta. Una storia di riti che prendono direzioni oscure e mostruose. O forse è una storia di cambiamento, un cambiamento veloce al quale non sappiamo dare un senso. Una storia di amicizie che scricchiolano e dell’orrore del crescere, dello svegliarsi un giorno senza aver capito cosa ci è successo, senza aver capito cosa è successo a quello che conoscevamo e a cui tenevamo.

E questa, forse, è la cosa che fa più paura.

Lo puoi trovare qui:


Una conclusione – Giulia Massini

“Quando il buio è così completo e solido come quello in cui caddi svenuta, si ha la sensazione di strappare un velo, tornando indietro”

La storia di Silvia è questo. Un continuo progredire e un continuo ritorno, il ritorno a un tentativo di normalità dopo che la malattia ci ha cambiato. Dopo che il buio ci ha abbracciato.

Perché la storia di Silvia è anche questo: cambiamento. E come catalizzatore di una evoluzione involontaria, Giulia Massini non sceglie l’avventura, o il successo o l’amore. Sceglie la malattia.

E non importa quali mali affliggano Silvia perché in qualche modo la protagonista è destinata a sopravvivere ma al tempo stesso, in qualche modo, a morire, a perdersi.

La malattia ci cambia e anche se il mondo, la vita, il lavoro o gli affetti proseguono, non sono più gli stessi. Perché noi per primi non siamo più gli stessi.

“Una Conclusione” è un messaggio e un avvertimento. Ci mette in guardia dalla sopravvivenza al dolore ma al tempo stesso ci conforta nella consapevolezza che al dolore si può sopravvivere, anche se inevitabilmente ci cambierà.

Lo sguardo di Silvia, le sue speranze, le sue sofferenze, la sua testardaggine, il suo desiderio di non arrendersi e al tempo stesso la sua voglia di farlo sono tutte cose che fanno parte di noi. Cose che fanno parte di una vita, quella di Silvia, scandita dal dolore.

Ma quello che ci insegna la protagonista va oltre: la vita, ci cambia. Dolore o meno. Malattia o meno.

E forse questo cambiamento andrebbe solo accettato.

Lo puoi trovare qui:


Fiori dal patibolo – Elia Gonella

“Sospetto che per lui fosse un puro gioco intellettuale, una partita a scacchi contro il mondo, un voler dimostrare a sé stesso che era in grado, col suo pennello, di raddrizzare i torti della natura”

L’arte è comprensione. Comprensione di un mondo le cui leggi naturali a volte appaiono incomprensibili. E l’arte è anche dolore, perché non è possibile capire qualcosa senza contemplarne anche – e soprattutto – le sofferenze.

Così è per Kertész, anziano pittore che fa della comprensione e del dolore una ragione di vita. Sfida il mondo, Kertész. Ne sfida le ombre, i torti, le stranezze. E noi, come il protagonista di “Fiori dal patibolo”, ci illudiamo che lo faccia per aggiustare gli errori del perfetto meccanismo naturale che ordina tutte le cose.

Non è così.

“Ora invece la bellezza mi sembrava solo una diversa forma di crudeltà”

La natura non sbaglia mai. I suoi errori sono in realtà moniti ai quali dovremmo prestare attenzione e dai quali dovremmo imparare. È così Jana, musa di Kertész. Un fiore doloroso che attinge a quegli orrori dai quali gli uomini assennati dovrebbero guardarsi. E allora Kertész deforma l’arte e a modo suo cerca di fare ciò che il dottor Moreau di Wells aveva già tentato: imbrigliare la natura, tessere il dolore e dargli una forma meravigliosa quando invece dovrebbe essere terribile. Chiunque vinca, nel tentare questo, in realtà ha già perso. Chiunque imponga la bellezza sta in realtà cambiando di colore alla crudeltà.

Elia Gonella ci accompagna in un altro luogo e in un altro tempo lasciando che siano i pennelli di Kertész a raccontarci una storia di arte, di dolore, di errori e di cose sbagliate fatte per il motivo giusto.

Lo potete trovare qui:


Il giardino dei sicari – Valerio Ragazzini

“Esiste un giardino dove un accenno di primavera è già sufficiente perché il terreno si riempia di migliaia di piccoli coltelli, con la stessa grazia con cui i prati di tutto il mondo si coprono di margherite.”

C’è un’inquietante predestinazione nello scorrere del tempo, nel susseguirsi delle stagioni. L’inverno che si fa primavera, la primavera che muta in estate, l’estate che migra in autunno. Ogni anno la vita cambia di segno scivolando dai colori dell’estate verso le ombre dell’inverno.

Valerio Ragazzini raccoglie questo testimone e lo declina, lo contamina, lo trasforma nel terribile ma necessario rapporto tra vittima e carnefice. Tra cosa siamo, cosa possediamo e quanto poco basti perché questo equilibrio venga completamente distrutto. L’autore sceglie uno stile quasi onirico con cui cesella la totalizzante metafora del suo giardino, dei sicari, del mondo ‘reale’, degli uomini con la valigia. Lo fa volontariamente a volte rendendo tutto molto esplicito altre volte replicando nella sua narrazione il mistero dello scorrere delle stagioni, della vita che diventa morte. E viceversa.

Non dobbiamo aspettarci risposte dal giardino dei sicari. Ma più un dato di fatto. Una magia fatta di ombre, che si replica. Con le sue meraviglie e i suoi orrori.

Lo puoi trovare qui:


Cambiano le prospettive al mondo – Carlo Salvoni

Volano gli uccelli volano

Nello spazio tra le nuvole

Con le regole assegnate

A questa parte di universo

Al nostro sistema solare

Così nel 1981 con la sua canzone ‘Gli uccelli’, Franco Battiato celebrava la magia del volo. Una magia a cui ci siamo abituati anche troppo in fretta colonizzando – anzi invadendo a nostra volta – il cielo. Uno spazio, quello aereo, di cui però siamo (saremmo?) ancora ospiti e che frequentiamo da meno di trecento anni.

Carlo Salvoni in qualche maniera raccoglie il testimone di quella canzone per restituire un senso di arcana inquietudine agli antichi signori del cielo. Nel suo mondo gli uccelli se ne vanno, poco alla volta, ma in maniera inesorabile. Migrano, abbandonano la Terra, compiono un ultimo volo verso lo spazio. Un volo senza apparente destinazione come senza apparente destinazione sembra la vita del protagonista, arricchita da ben poche coordinate. Come, forse, ha perso le coordinate anche il viaggio dell’uomo sul pianeta.

Gli uccelli – TUTTI gli uccelli – quindi spariscono. E questa loro assenza in alcuni catalizza pensieri, idee, riflessioni, consapevolezze. Avvicina le persone, le allontana. Innesca la nascita di nuove relazioni, di nuove vite. Ne tronca altre. Costringe, insomma, a “Cambiare le prospettive del mondo”.

Aprono le ali

Scendono in picchiata, atterrano

Meglio di aeroplani

Cambiano le prospettive al mondo

Voli imprevedibili ed ascese velocissime

Traiettorie impercettibili

Codici di geometria esistenziale

Diceva Battiato. E la favola adulta di Salvoni ripercorre a suo modo questa picchiata cambiando DAVVERO le nostre prospettive al mondo, trasformando le geometrie esistenziali che definiscono quello che pensiamo di sapere. Salvoni racconta dell’inizio, della fine e di tutto quello che ci sta in mezzo. Di una dannazione che però potrebbe essere salvezza o semplicemente cambiamento. E seppure gli inneschi di quel volo restano inspiegabili come nella solida innocenza delle favole, le radici della storia che ci racconta l’autore attingono dalle nostre profondità. Dai comportamenti umani sbagliati, da quelli giusti, dal potere della redenzione, dalla voglia di cambiare per dare un senso alle cose quando sembra che di senso, ormai, ne sia rimasto poco.

E poi quelle stesse radici germogliano spingendoci verso un futuro che fa paura ma che forse, alla fine, è quello di cui avremmo bisogno.

Lo puoi trovare qui:


I Martiri – Lucio Besana

Una perdita. Il rimpianto. Le occasioni mancate. Quello che avremmo voluto essere. Un amore finito male. Un amore mai iniziato. L’invidia. Gli amici che ci hanno ferito. Gli amici che abbiamo ferito. Quella stretta di mano non data. Quella risposta che ci è uscita più dura di quanto avremmo voluto. Punture di spillo che raccogliamo nel corso di un’intera esistenza.

La vita costella il nostro corpo di dolori grandi e di piccole delusioni. Sensazioni che definiscono la nostra cartografia interiore, che mappano cicatrici emotive. Grandi delusioni e piccoli dolori che dobbiamo assorbire prima di poter lasciare andare l’eredità di sofferenza che portano in dote.

E se non fosse così? Se il dolore diventasse qualcosa su cui indugiare? Se diventasse persino desiderabile? Se fosse l’unico modo per capire davvero?

Lucio Besana ci racconta di un poliziotto senza nome in una città senza nome dove il dolore si fa sostanza. Dove “Spesso succede così. Sono i più giovani a iniziare”. Dove certe cose non puoi combatterle se prima non le hai comprese e dove la comprensione è il primo passo per la resa.

I Martiri racconta di un orrore – quello degli Spilli – che non offre spiegazioni scientifiche ma che poco a poco si insinua nel quotidiano finendo con il portarlo a un nuovo, terribile, desiderato grado di normalità. È un presente, quello di Besana, che decide di presentarci il suo conto sublimando e saturando il mondo che pensiamo di conoscere – che ci appare concreto e materiale – con piccoli portali fisici che si aprono su un universo le cui formule sono tutte determinate da una variabile di sofferenza.

L’essenziale è invisibile agli occhi“, diceva Antoine de Saint-Exupéry. Il dolore, invece, trova sempre il modo di mostrarsi. E ne I Martiri ciascuno di noi troverà il dolore che desidera.

Lo puoi trovare qui:


La Atlas Corporation – Linda De Santi

“Amavo la sensazione di separazione dalla realtà, la lontananza dal mondo che mi circondava, il tempo che passava in un lampo. Quando rispondevo alle domande dimenticavo di esistere, mi lasciavo assorbire da ciò che facevo, diventavo azione, causa.”

Questo è quello che prova Adele Niccolini non appena inizia il suo nuovo lavoro alla Atlas Corporation. E in queste poche righe Linda De Santi condensa quelle che sono le speranze – spesso disattese – di chi un lavoro lo cerca, lo spera, lo desidera. Di chi viene identificato con il lavoro che svolge al punto di non riuscire più a distinguere il confine tra la propria mansione e la propria identità. Di chi subisce le necessità di un presente iper produttivo, di un mondo che lo vuole parte del glorioso meccanismo produttivo che lo anima.

Questo racconto è come le immagini che Adele, nello svolgere il suo lavoro, deve guardare cercando poi di associare a ciascuna di essere una sensazione: mostra alcune cose ma in realtà, sotto uno strato narrativo inquieto che flirta con la fantascienza, parla dell’oggi, delle aspettative, delle promesse infrante.

E racconta anche di come tutti noi cerchiamo qualcosa che ci faccia sentire completi, che sia in grado di accompagnare i nostri ultimi minuti di veglia con il desiderio di ricominciare subito a essere parte di quel tutto di cui abbiamo bisogno. Di un tutto che in realtà ci hanno obbligato a desiderare. Perciò la Atlas Corporation cortocircuita diventando per il lettore quel mondo di cui Adele, seppure per una settimana, è entrata a far parte.

Diventa un luogo stratificato, illusorio. Un posto dove riesci a sentirti completo ma che proprio per questo non può più ospitarti

E allora ti lascia esule, con l’illusione di aver visto per un momento la meraviglia delle possibilità che si realizzano, con il dubbio che quelle possibilità siano un inganno, con la certezza di non volerle davvero, quelle possibilità.

Perché accettare la verità – e farne parte – ti renderebbe più orribile di quanto tu possa sopportare.

Lo puoi trovare qui:


Funerale – Francesco Corigliano

“E senti il suo tipico odore di tabacco e di vino.”

Funerale di Francesco Corigliano è questo: un gioco di percezioni.

Sono i sensi di Maddalena a mostrarci il paese di San Filario. Sono le semplificazioni tipiche di una bambina a guidarci attraverso un rito funebre di cui scopriamo le coordinate a poco a poco.

Il mondo dei bambini è cosi: colorato, profumato, buio e luminoso. Un vortice di sensazioni che si intrecciano tra loro dando colore ai profumi, sapore ai suoni, rumore agli odori.

Maddalena e San Filario sono, insieme, sinestesia.

Lo sono nei ricordi del nonno, tabacco e vino. Lo sono nel profumo della confettura che di San Filario è cuore e anima. Lo sono nella scrittura via via più evocativa. Lo siamo anche noi che veniamo iniettati nello sguardo di Maddelana attraverso la seconda persona, una narrazione che ci parla direttamente imponendoci il suo punto di vista.

Ed è con lo sguardo di una bambina che vediamo le viscere sinestetiche di San Filario dove tutto – tutto – si mescola. Si mescolano vita e morte, luce e buio, tradizione e futuro, giovinezza e vecchiaia. Corigliano ci impone lo sguardo di una bambina perché è solo attraverso occhi puri, ingenui e immaginosi che possiamo sopportare ciò che si nasconde a San Filario.

E poi, nonostante tutto, nonostante la comunione e l’orrore, nonostante la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di sbagliato, ci ritroviamo lí. Insieme a Maddalena, a suo padre e sua madre, insieme a tutto San Filario. Siamo lì e sentiamo tutto intorno quell’odore di tabacco e di vino tipico di un’infanzia che è appena finita.

Lo puoi trovare qui:


Gabriele – Maddalena Marcarini

Spesso, più spesso di quanto sarebbe giusto, ci sentiamo diversi da quello che vorremmo essere. Perché? Perché spesso, più spesso di quanto sarebbe giusto, gli altri ci vorrebbero diversi da quello che siamo.

A volte lasciamo che il nostro essere diventi la somma delle aspettative altrui. Indossiamo vestiti scomodi, troppo stretti. E allora li cambiamo, li allarghiamo, cerchiamo di seppellire il nostro vero io sotto centimetri e centimetri di una stoffa che, col passare del tempo, diventa impossibile distinguere da noi.

Mentre quello che vorremmo è solo qualcuno in grado di aspettarci, di reggere i nostri vestiti e la nostra pelle quando li sfiliamo perché troppo stretti, troppo sbagliati.

Gabriele di Maddalena Marcarini è questo. È una storia di un cambiamento negato, di un mutare desiderato. È il poter essere quello che siamo, é il trovare qualcuno che ci aspetti. Sempre.

Lo puoi trovare qui:


“E la bellezza mi si rivelò come qualcosa che si toglie dalla donna che l’ha subita con l’effetto di una grande liberazione.”

Carmen subisce la bellezza senza rendersene conto, perché la bellezza per alcuni è una colpa di cui ci si macchia senza poter far nulla per espiarla, quella colpa. Carmen ha un legame con il mondo che la circonda. Un legame ancestrale, antico, zingaro. Carmen è nelle piante, negli edifici della riviera, nel banco di un’aula scolastica. Carmen è nella mente di tutti quelli che la incontrano ma forse – forse – non riesce ad abitare la sua, di menti.

Giulia Massini ci racconta una storia di crescita e di perdita. Ci racconta una storia di amicizie che cambiano, di legami che si recidono e che poi, forse, possono trovare una nuova strada. Tra le coordinate di un passato non troppo remoto ma sufficientemente antico da rendere possibile sia la magia nostrana che le superstizioni gitane, tra le geografie instabili dei luoghi di mare, l’autrice innesta la giovane Carmen. Un corpo quasi estraneo che però incarna – in questo il nome che porta è assonanza emotiva – gli orrori, gli sbagli, le semplificazioni e i luoghi comuni di un presente fin troppo vivido.

Il weird, l’insolito, in Carmen viene accolto come una liberazione che ha il sapore della normalità. Per dimostrarci, ancora una volta, come il mondo che abitiamo ha bisogno di aprire continue finestre su quello che non comprendiamo. Per essere capito meglio.

Lo puoi trovare qui:

Condividi!

Leave a comment

0