Qaanaaq è tutto e il contrario di tutto. Palidroma, come il suo nome, è una città galleggiante tra le cui Braccia si intrecciano culture, vite, speranze e sofferenze.
Gestita da software, raccoglie al suo interno le meraviglie e gli orrori di una civiltà, quella umana per come la conosciamo, che ha intrapreso il durissimo sentiero della sopravvivenza a tutti i costi. Tra le ombre della città, tra i suoi vicoli, nei palazzi dei ricchi funzionari che l’amministrano, lo spettro del “frantumo”, una malattia della quale sembra impossibile definire i contorni.
La Città dell’Orca è una grande affresco distopico che costruisce le sue solide fondamenta su un’ambientazione pazzesca. Qaanaaq si fa respirare, letteralmente, dal lettore. Il melting pot culturale che Miller riesce a rendere omogeneo nel suo romanzo è vivo, più vivo dei personaggi stessi che animano le parti più disparate della città.
L’autore sceglie uno stile frammentato, fatto di capitoli brevi, fatto di intrecci che a volte si svolgono in zone non descritte della narrazione. Un omaggi al frantumo? Un espediente tecnico per richiamare la varietà e il disordinato ordine di Qaanaaq? Forse.
Miller affronta tanti temi nel romanzo. Parte dalle coordinate di un disastro ambientale di proporzioni planetarie e continua la sua rotta andando a sfiorare con precisione le lotte di classe, la famiglia, la ricerca di sé, l’importanza del ricordo, della memoria, della diversità. Il tutto sempre scandito dal metronomo del suo stile frammentato.
Personalmente, ho trovato la scelta tecnica di capitoli così brevi limitante, forse non del tutto adatta alla grandezza di Qaanaaq che è, e resta, un’ambientazione straordinaria.
Ma è anche vero che alla fine “La città dell’orca” è un romanzo il cui tutto è superiore alla somma delle singole parti e che proprio per questo, oggi più che mai, merita di essere letto.
Lo puoi trovare qui:
Immaginate di guardare dentro un caleidoscopio. L’occhio incollato al piccolo foro sul tubo di cartone, le dita della mano che ne accarezzano la superficie ruvida. Pronte a innescare la magia. Poi lo ruotate, quel caleidoscopio. E le ghirlande che vi esplodono davanti non sono solo immagini psichedeliche ma sono frammenti di vita che schizzano dal tubo e vi si conficcano nel cervello. Frammenti che colorano, feriscono, nascono e muoiono. Ecco, leggere ‘Ragazzi Belve Uomini‘, antologia di racconti firmati da Sam J. Miller, è come guardare dentro un caleidoscopio del genere.
È come un viaggio, l’antologia di Miller. Un viaggio la cui rotta è definita dalla fatica, dalla gioia, dalla rabbia, dalla normalità e dalla necessità di essere ciò che si è. Un viaggio in un passato nel quale “la tristezza è una scintilla più potente della rabbia”, dove il desiderio di una condivisione furiosa e inevitabile finisce con l’innescare poteri di cui tutti erano consapevoli ma che nessuno sapeva di possedere.
Un viaggio che trascina fuori dallo schermo cinematografico alcuni miti e li trasforma in dolorosi ma sorprendenti strumenti del cambiamento. Raccoglie la loro eredità fisica e concettuale, il loro lascito a volte sofferto e a volte eroico, e utilizza ciò che sono e ciò che erano per catalizzare un cambiamento. Fisico o interiore o entrambe le cose.
Un viaggio che raccogli i sogni, i desideri e gli incubi di una collettività e che li trasforma in carne e ossa e desiderio e paura. Che descrive il sogno e l’incubo di ogni scrittore scoprendo i nervi di un’arte – quella dello scrivere – che non può prescindere dall’amore e dalla morte perché “le cose di cui abbiamo bisogno fanno sempre male”.
C’è tutto questo nel viaggio attraverso le vite racconta da ragazzi, da belve e da uomini. E c’è anche una grande sincerità nella scrittura di Miller. C’è una sincerità mista a una rabbia e a una determinazione che non possono però prescindere da una grande delicatezza di fondo. Ho guardato nel caleidoscopio, consiglio anche a voi di farlo. Unica avvertenza: la magia del caleidoscopio dipende anche dall’occhio di chi guarda.
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