Ti chiesi io, Creatore, dall’argilla
di crearmi uomo, ti chiesi io
dall’oscurità di promuovermi…?
(Milton, Il Paradiso Perduto)
Non è facile recensire un romanzo del quale è già stato detto tutto quello che si poteva dire e che è entrato a pieno titolo nell’immaginario mondiale. Un romanzo la cui sola genesi (avvenuta grazie a un macabro gioco di inventiva nelle fatali nottate che Mary Shelley trascorse a villa Diodati in compagnia di Lord Byron, del dottor Polidori e del marito Percy) profuma di leggenda e che ha finito con il generare uno dei più famosi mostri letterari e cinematografici. Non è facile, ma vale comunque la pena tentare.
La storia è ben nota. Il promettente Victor Frankenstein, giovane rampollo di una ricca e rispettata famiglia elvetica, si trova al culmine di un percorso scientifico iniziato con l’alchimia di Paracelso e culminato tra le più eminenti cattedre universitarie. E’ proprio al raggiungimento del suo personale climax conoscitivo che Victor compirà il miracolo: nasce il mostro. Nasce la sua creatura. Ma qualcosa nello scienziato si spezza. La febbre che lo aveva animato fino al raggiungimento del suo obiettivo svanisce all’improvviso e in lui resta solo il disgusto e il terrore per ciò che ha fatto.
Il mostro sparisce, terrorizzato quanto e più di Victor. Unica nel suo genere e flagellata da un aspetto ributtante, la creatura si trova solo e rifiutata. Priva di una formazione morale è in balia dei sentimenti di coloro che incontra sul proprio cammino, sentimenti viziati dall’apparenza del mostro e dall’anima selvaggia e profonda che lo abita. Incolpevole della sua nascita, ben presto cercherà nel creatore Frankenstein uno scopo fino a proporre lo scellerato patto: Victor dovrà fabbricare una seconda creatura in modo da porre fine alla straziante solitudine del mostro e il costrutto, in cambio, si ritirerà lontano dall’uomo. Nessuna vendetta. Nessun altra morte. Nessun pericolo per la famiglia Frankenstein, già spezzata dalla furia solitaria della creatura.
Il romanzo è strutturato come un diario: l’esploratore Robert Walton scrive alla sorella Margareth fornendo dettagliati resoconti della sua missione al Polo Nord. E’ proprio in quelle gelide lande desolate che incontrerà Victor, intrappolato in una caccia senza fine al mostro, ed è attraverso la penna di Walton che conosceremo la storia di Frankenstein.
La cosa che più mi ha stupito di questo romanzo è il complesso armamentario psicologico che Mary Shelley dispiega per costruire il confronto tra Victor e il suo costrutto. Da una parte l’etica di Frankenstein, dimenticata fino al fatale giorno in cui il mostro prende vita ma poi destinata a condizionare tutte le sue scelte future. Dall’altra lo straziante conflitto del mostro. Una creatura selvaggia e pura che proprio come l’uomo di Milton non ha chiesto di essere creata ma che, superiore in capacità fisiche e pari in intelletto al suo stesso padre anatomico, pretende gli sia assegnato un posto. E visto che gli altri uomini non sono disposti ad accettarlo è compito di Victor risolvere questo dilemma ripetendo l’abominio.
Come dicevo, al di là delle riuscite atmosfere gotiche, al di là dell’ambientazione e dei percorsi formativi di Victor, la cosa sorprendente del romanzo è la modernità dei concetti che Mary Shelley mette in campo. La formazione culturale dell’autrice spiega molto di ciò che troviamo in Victor e nella sua creatura ma non è sufficiente. Dietro i lunghi monologhi dei protagonisti c’è una puro pensiero filosofico che è marchio di fabbrica di quei tempi sotto molti aspetti illuminati.
Ed è su questo che voglio spendere due parole. Come nell’opera di Wells ‘L’Isola del Dottor Moreau‘ anche qui una profonda speculazione filosofica sullo scopo ultimo dell’uomo e sulla sua discendenza ancestrale porta a conclusioni modernissime e inquietanti. La freddezza con la quale il mostro dipinge la società sembra un’infausta previsione di ciò che sarebbe venuto nei secoli successivi così come i dilemmi morali di Victor sono gli stessi che i moderni scienziati si trovano a fronteggiare.
La filosofia, quindi. Un potentissimo strumento in parte (se non del tutto) bandito dai nostri ‘circoli letterari’ e dalle nostre penne. Mary Wollstonecraft Goodwin Shelley nel 1816 a diciannove anni, forte del bagaglio culturale donatole dalla famiglia e stimolata dai guizzi creativi del marito, fu in grado di dipingere un complesso affresco che scavava senza paura di sporcarsi le mani nei più profondi desideri dell’uomo.
Mi domando cosa potremmo fare con il tempo, la voglia o la possibilità di riappropriaci della più estrema speculazione filosofica. Mi chiedo quale profondità si potrebbe raggiungere oggi che la tecnologia ci consente cose inimmaginabili anche solo pochi lustri fa. Me lo chiedo e cerco la risposta anche in questi grandi maestri del passato.
di Maico Morellini
2 Comments
Steffy
19 anni… Penso alla capacità di riflessione dei ragazzi di oggi, intelligenti, istruiti e super accessoriati (già millenial), che sparisce di fronte alla profondità di pensiero di questa signora di 200 anni fa. Spaventa il pensiero e anche un po’ preoccupa, perché se da un lato si può contrapporre l’evidenza della vita media più lunga, dall’altro le fasi della vita di una persona sono più o meno sempre le stesse. Il futuro mi appare molto incerto. Riescono questi ragazzi a capire questo libro? Riescono a vedere tutti gli aspetti di modernità, le implicazioni etiche, le analogie con le tante nuove presunzioni di onnipotenza? Il mio istinto non mi dà attualmente risposte rassicuranti. Io non ho studiato filosofia, ma comunque ho potuto maturare in qualche modo il mio pensiero; non vedo colte le stesse opportunità oggi anche se paradossalmente ce ne sono tante e tante di più. Questo libro dovrebbe essere letto a scuola!
Maico Morellini
Concordo in tutto e per tutto: Frankenstein andrebbe fatto leggere a scuola insieme al percorso dell’autrice come manifesto della forza del pensiero.