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DAVID FOSTER WALLACE

Tempo di lettura: 9 minuti
Infinite Jest – David Foster Wallace

“Lenz racconta a Green che una volta era andato a una festa di Halloween dove c’era una donna idrocefala che aveva una collana fatta con gabbiani morti.”

Forse questo è il miglior biglietto da visita per Infinite Jest, il manifesto di David Foster Wallace. Un romanzo che non è un romanzo perché frantuma ogni tipo di narrazione, perché apre decine di finestre sul flusso di pensieri dell’autore e perché non ha alcun tipo di filtro. Non credo ci sia un modo giusto o uno sbagliato per leggere Infinite Jest: io, per esempio, ci ho messo dieci mesi. Lo incontravo come si incontra un vecchio amico, uno di quelli che viaggia per il mondo e che ti racconta le cose meravigliose – e terribili – che ha visto. E a ogni incontro si riprendeva esattamente da dove si era interrotto la volta precedente. Senza imbarazzi, senza tempi morti, senza prendere in considerazione il tempo passato tra una birra e l’altra. L’unico consiglio che mi sento di dare come propedeutico alla lettura? Leggere l’articolo che David Lipsky pubblicò il 30 ottobre del 2008, cinquantotto giorni dopo la morte di David Foster Wallace): qui trovate il suo meraviglioso pezzo in italiano. E cosa state per leggere? Non una recensione, è impossibile (e sinceramente sarebbe anche molto arrogante) cercare di recensire Infinite Jest. Piuttosto suggestioni ed emozioni, idee e riflessioni. In sintesi, cosa è stato per me leggere questo romanzo.

COORDINATE

Infinte Jest racconta di un futuro imprecisato nel quale la scansione del tempo viene affidata a sponsor che sostituiscono la numerazione degli anni con i nomi dei loro prodotti. Racconta di una accademia di tennis, la Enfield, nella quale si intrecciano i destini dei ragazzi che la frequentano. Racconta di una casa di recupero per tossici e alcolizzati, la Ennet House all’interno della quale persone frantumate cercano di riunire i cocci della loro esistenza. O di dare un senso alle macerie che abitano. Racconta dei separatisti del Québec, dei servizi segreti americani, dell’ONAN (Organizzazione delle Nazione dell’America del Nord) e della Grande Concavità, un territorio-discarica regalato al Canada nell’intreccio geopolitico che fa da cornice al romanzo. E, soprattutto, racconta dell’Intrattenimento: una forma d’arte così totalizzante da togliere letteralmente qualunque altro interesse gli s(f)ortunati che ne incrociano le frequenze. E quindi esistenze, redenzioni, conflitti e dipendenze.

DISINNESCARE IL CONFLITTO

Nel tennis il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico; è più il partner nella danza. Lui è l’io per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro al gioco: fai breccia nei tuoi limiti; trascendi; migliora; vinci.

Infinte Jest parla anche di tennis. Il tennis è la spina dorsale della Enfield Academy, è lo Show, è la terribile ambizione a cui Hal Incandenza (uno dei protagonisti) e i suoi compagni di Academy dovrebbero ambire. Ma il tennis, uno sport che dovrebbe essere l’essenza del conflitto, della rivalità (non è un caso che l’Eschaton, straordinario gioco-invenzione di Foster Wallace nel quale le palle da tennis sono testate nucleari si svolga proprio sui campi da tennis), è anche molto altro. È un’occasione, un modo per crescere, per superare i propri limiti. Per trasformare una sfida che rischia di essere solo individuale in qualcosa di molto, molto più profondo. Una danza, un superare i propri limiti grazie all’aiuto dell’avversario. Un intreccio competitivo e solidale, un sostenersi a vicenda perché l’unione delle volontà dei due giocatori è ben superiore alla mera somma matematica delle volontà singole. Al netto della sconfitta o della vittoria. Il tennis è un’opportunità che va colta, una consapevolezza. Ma se non si capisce l’estraneità del conflitto, se non si riesce ad afferrare quando sia necessario un avversario per il superamento dei propri limiti, ecco che il tennis è una trappola. Così come lo è la vita. Tra i riflessi sulle vetrate dell’Enfield Academy intercettiamo i pensieri di David Foster Wallace (tennista a sua volta), la necessità di trovare un partner nella danza. Qualcuno che lo aiuti a superare i propri limiti, le proprie debolezze. Qualcuno che Wallace, forse, non troverà mai davvero.

DIPENDENZe E DOLORE E SPERANZA

C’è una cosa che gli Aa sembrano omettere di menzionare quando sei nuovo e completamente fuori di testa dalla disperazione e pronto a eliminare per sempre la tua mappa e ti tocca sentirti dire che le cose andranno sempre meglio se continuerai ad astenerti e darai tempo al tuo corpo di riprendersi: omettono di dirti che il modo per migliorarti e stare meglio passa attraverso il dolore. Non intorno il dolore o nonostante il dolore.

Le parti più strane, più aliene e terrene al tempo stesso e più dolorose di Infinite Jest hanno a che fare con gli ospiti della Ennet House. Durante le sedute, innestati in ecosistemi rituali, abituati o sopraffatti da un dolore (da un Ragno) che non smette mai di tormentarli, gli uomini e le donne della Ennet House raccontano e si raccontano. Ogni frase pronunciata all’interno di quelle mura è una confessione senza filtro di David Foster Wallace. Lo si percepisce anche senza conoscere la tormentata vita dell’autore. In Don Gately e in tutti i pazienti della Ennet House c’è il desiderio di vivere una vita normale, di allontanarsi dalle dipendenze, di trovare un motivo – un qualunque motivo – per continuare a resistere. Un minuto dopo l’altro. Perché nessun minuto di dolore è mai insopportabile e se pensare di sopravvivere a una vita di sofferenza è impossibile, farlo per un minuto, ecco. Quello è possibile. È un prolungato grido di dolore e speranza, quello di Foster Wallace. Lo si legge dappertutto. I suoi personaggi – e vista la sincerità che ci regala, lui stesso – cercano in tutti i modi un motivo. Si ribellano alla sofferenza. Ma anche alla normalità. A una vita che potrebbe essere felice ma che per qualche motivo non riesce a esserlo. Sperano in un equilibrio. E cadono. E si rialzano. E cadono di nuovo. E sanno che una vita serena è irraggiungibile, fuori dalla loro portata. E pensano di non meritare nemmeno di essere felici ma sperano comunque di poter sopravvivere nell’infelicità. Di nuovo, un minuto dopo l’altro.

Non c’è modo che un figurante possa vincere.”

Dice Foster Wallace. E ci viene il sospetto che non fossero solo i suoi mille personaggi a sentirsi figuranti in una storia più grande di loro. Ci viene il sospetto che nonostante una mente brillante e unica, lui stesso si considerasse un figurante. Come Eric Clipperton che per un caso fortuito, a un certo punto di una vita assurdamente infelice, si è trovato suo malgrado sul podio dell’esistenza.

ERIC CLIPPERTON

Chi era Eric Clipperton? Un giovane tennista mediocre che appariva nei più disparati tornei juniores, estraeva dalla borsa la racchetta e insieme alla racchetta, una pistola. Se la puntava alla tempia e sfidava il suo avversario a batterlo. Nessuno, ovviamente, aveva il coraggio di farlo. E così Eric Clipperton vinceva ogni torneo a cui partecipava, tornei che però non assegnavano punti. Lui lo sapeva, di non raccogliere niente nelle classifiche. E vagava in questo limbo di vittorie senza significato. Di primi posti che non servivano a nulla se non ad aumentare le fila della Brigata Clipperton, un piccolo esercito di perdenti per scelta. Una piccola tribù che non combatte per non fare – e per non farsi – troppo male. Questo fino a quando uno sfortunato algoritmo smise di invalidare le vittorie di Clipperton e lui – Eric – si trovò numero uno del campionato juniores. Gioco. Partita. Incontro. Eric Clipperton finirà suicida, il grilletto finalmente premuto, poco dopo aver scoperto di essere in cima a quel ranking che sembrava aver inseguito per tutta la sua breve vita infelice.

Inseguire qualcosa e fare in modo di non raggiungerlo mai, ecco il segreto. Una delle tante ricette di Wallace per tentare di ingannare l’esistenza? O Eric Clipperton aveva raggiunto il suo scopo e niente importava più? O forse la consapevolezza che il talento può essere più una condanna che una benedizione?

paura E mostri

“Ho paura di dare al mio ultimo talento l’ultima chance che richiede. Il talento coincide con l’aspettativa che suscita, Jim, o sei alla sua altezza o quello ti sventola un fazzoletto e ti abbandona per sempre. Usalo o perdilo, dicevano sul giornale. Io ho … ho solo paura di avere una lapide che dice QUI GIACE UN VECCHIO PROMETTENTE. È che … potenziale può essere peggio di nulla, Jim. Peggio che non avere nessun talento da sprecare […]”

Occasioni sprecate. Vite dedicate – consacrate – al disperato tentativo di vivere. Tennisti che annaspano sperando di raggiungere lo Show (è come Wallace definisce il circuito major del tennis) e al tempo stesso temono quello che sperano. E il talento. Un moloch ingombrante, un fardello che Eric Clipperton sapeva di non dover portare e che proprio per questo non temeva. Un’assenza che lo teneva in vita. Una minaccia che incombe, che paralizza. Un veleno il cui antidoto può essere la dipendenza. Dalle droghe, dall’alcol. Dalla dipendenza stessa. Forse l’universo narrativo di Wallace orbita intorno a personaggi che temono il talento e che fanno di tutto per nasconderlo sotto strati di esistenze distrutte. Perché il talento è un fuoco che brucia in fretta. E poi ci sono i mostri. Ma non quelli della Ennet House, non i sicari su sedia a rotelle di Rémy Marathe, non il gelido tennista dell’Academy John Wayne e nemmeno Lui In Persona, padre di Hal, istrionico artista in grado di creare l’Intrattenimento definitivo, la droga totale capace di spazzare via ogni resistenza. Morto, come Clipperton, suicida.

“A diciassette anni penso di credere che i soli veri mostri sono quei bugiardi che non si riesce a smascherare. Quelli che non ti tradiscono mai.”

Invece magari è tutto qui. Magari è un mondo di mostri, quello di Wallace. Un mondo al quale si può sopravvivere solo sopportando un secondo di dolore alla volta.

Potrei dire tanto altro, ma non credo avrebbe senso. Infinte Jest è un’esperienza talmente vasta che ciascuno raccoglie dalle sue pagine cose diverse. Proprio per questo credo sia una grande opportunità che tutti, nel momento giusto della loro vita, dovrebbero darsi.

Lo puoi trovare qua:

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