Il capitano Crozier sale in coperta e vede che spettri celestiali hanno preso d’assalto la sua nave. Sopra di lui, sopra la Terror, luccicanti spire di luce di lanciano in affondi e poi subito si ritirano, come le colorite braccia di fantasmi aggressivi, ma alla fin fine titubanti
THE TERROR – DAN SIMMONS
Dan Simmons inizia così il suo personale, dettagliato, claustrofobico e resiliente viaggio nei ghiacci artici. Un viaggio che inizia dalla fine, cioè dalla misteriosa scomparsa della HMS Erebus e della sua gemella HMS Terror (“scomparsa” che non è più tale dal 2014 quando il relitto della Erebus è stato ritrovato), un viaggio che trasporta il lettore (e l’autore) in un altro mondo e in un altro tempo. Tre sono le cose che impressionano del romanzo di Simmons. La prima è la capacità dell’autore di veicolare le emozioni degli equipaggi, la loro situazione sempre più disperata, la consapevolezza che il ghiaccio non è solo acqua congelata ma ha una sua terribile, cinica e letale volontà. Quando si sollevano le creste di pressione, quando tutto sembra un unico micidiale inverno lungo tre anni, quando la morsa del pack costringe le chiglie delle navi a intraprendere una battaglia impossibile da vincere, quando la silente minaccia dello scorbuto (e dello sconosciuto botulino) si aggiunge alle letali insidie che gli uomini di Franklin e Crozier, quando tutto questo succede Simmons è in grado di portare noi che leggiamo a bordo delle navi.
E lo fa sfruttando la seconda grandiosa caratteristica di questo romanzo. Come Moby Dick (che Simmons cita non a caso) era un manifesto dettagliato e realistico della vita a bordo delle baleniere, così The Terror diventa un gioco di ruolo nel quale il lettore è chiamato a interpretare tutti i personaggi che danno il nome a ciascun capitolo. Nomi, cognomi, caratteristiche, ruoli, incarichi: l’autore ci mette al centro delle due navi, del loro equipaggio e lo fa con tanta e tale disinvoltura che alla fine noi stessi siamo fratelli di quegli eroici, sfortunati e in alcuni casi malvagi marinai. Così ammiriamo Crozier, denigriamo Franklin, amiamo il pragmatismo dell’ice-master Blanky, la purezza di Irving, la crescita umana e spirituale di Goodsir e l’energia dell’infaticabile signor Diggle.
E questo porta al terzo, enorme pregio di The Terror. Il mito. Un mito che viene rifiutato per quasi 700 pagine da Crozier, un mito che l’uomo bianco inglese abituato a dominare ogni cosa cerca di ascrivere alla normalità. Navi rinforzate per spezzare i ghiacci eterni del nord, stufe per scaldare le gelide trappole di legno e metallo che il Discovery Service scaglia come proiettili attraverso i mari, moschetti per abbattere gli orsi bianchi. Un mito che, all’esaurirsi delle miserie umane, di debolezze indicibili e di una comunione (e di un declino) verso la sopravvivenza che possiamo solo lontanamente immaginare, si manifesta in tutto il suo semplice e mistico splendore. Come a dimostrare che “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia” seppure la filosofia di Crozier e compagni è più affine a un religioso raziocinio evolutivo. Cosa resta dopo aver affrontato un viaggio (e un romanzo) come questo? Resta la sensazione di aver preso parte a qualcosa di grande, a qualcosa il cui valore finale è ben più che le somma delle parti. Resta gratitudine e resta anche una ammirata compassione: come può aver fatto Dan Simmons a lasciare la coperta della Terror dopo un viaggio come questo? Quanto di lui è rimasto intrappolato nei ghiacci? E quanto è tornato cambiato dopo aver trascorso tre anni in terre lontane dove il mito nuota sotto il pelo dell’acqua in attesa che il ghiaccio sia abbastanza sottile da rivelarlo?
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Dan Simmons non è uno scrittore ‘occasionale’, non è un turista della narrativa e non è un semplice mestierante. Ne sono e ne ero ben consapevole.
Eppure, lo ammetto, non ero pronto a qualcosa di così complesso, completo e accattivante come ‘Drood’. Al tempo già ero innamorato della rivisitazione storica, in chiave fantastica, della Londra di ‘Jonathan Strange e il Signor Norrell‘ ma l’affresco vittoriano del ‘Gran Forno’ dipinto da Simmons in ‘Drood’ è qualcosa di molto superiore, che lascia senza fiato. Di sicuro complice dell’autore sono le mie aspirazioni letterarie che mi fanno apprezzare da addetto ai lavori lo sforzo creativo dietro un romanzo come questo.
Sia come sia Londra vista attraverso gli occhi di Wilkie Collins e attraverso la lente del suo rapporto con l’Inimitabile Charles Dickens è qualcosa di così reale da sentirne, una pagina dopo l’altra, il respiro sulla pelle. Simmons poi in alcuni momenti dimostra di padroneggiare il macabro e l’horror come raramente ho visto fare in altri romanzi. Accelerazioni, picchi, rallentamenti, colpi di scena, e una stregua infinita di personaggi tratteggiati in modo magistrale. Così precisi e dettagliata da divenirci famigliari con le loro fobie, con i loro difetti.
Questo libro non è solo un romanzo. E’ un’analisi letteraria, un gioco di ruolo irresistibile nel quale uno scrittore moderno supportato da una mole di ricerche sconfinata e incredibile immagina come scrittori del passato hanno avuto i loro slanci creativi, i loro conflitti e le loro collaborazioni. Simmons lancia una sfida che è impossibile non accettare: leggendo di Dickens e Collins diventa naturale il desiderio di recuperare poi ogni singolo romanzo sgorgato dalla penna di questi grandi autori. Più volte mi sono sorpreso su internet alla ricerca di informazioni sui due protagonisti e sui loro lavori. E questo, a mio parere, è il grande successo di questo romanzo.
Intendiamoci, ‘Drood’ non è un libro facile. E’ complicato, scritto in modo attento e complesso, ricco di descrizioni. E’ un libro che non si presta a giudizi tiepidi o sommari: o lo si ama, o lo si odia.
Io l’ho amato. Anche il finale, che traccia alcune linee, che suggerisce la realtà di ‘Drood’ ma che non la svela mai del tutto. Più di ogni altra cosa i due protagonisti, Wilkie Collins e Charles Dickens sono così profondi, così complessi, così sfaccettati da divenire persino più veri di qualunque biografia si possa mai leggere. Da trasformarsi in intimi amici che crediamo di conoscere bene.
Quando ci capita tra le mani un romanzo come questo c’è solo una cosa da fare: leggerlo con attenzione, studiarne ogni minima parte, assaporare sfumature e accenti, stupirsi di quanto sia bello (e raro) poter dedicare alcune ore del proprio tempo a un’opera come questa.
Dan Simmons con Hyperion (1989), il primo capitolo della sua tetralogia ‘I Canti di Hyperion’, confeziona un complesso romanzo all’interno del quale già troviamo alcuni semi letterari che sbocceranno solo molti anni dopo.
Riassumere la trama del romanzo non è facile perché già dalle prime pagine Simmons decide di immergerci nel suo universo e lo fa senza indugiare troppo su spiegazioni lunghe e stucchevoli. Termini come ‘debito temporale’, ‘Teleporter’, ‘Ouster’, ‘Egemonia’ e ‘FORCE:spazio’ ci risultano subito famigliari anche se il reale significato di queste parole diventerà del tutto chiaro solo in seguito.
La narrazione procede su due binari differenti. Da un lato il presente, con l’incombente minaccia Ouster su Hyperion, pianeta periferico e poco evoluto che però a causa delle Tombe del Tempo e della misteriosa minaccia nota come ‘Shrike’ si trova al centro di un possibile conflitto intergalattico. Dall’altro il passato, con le storie dei sette pellegrini diretti su Hyperion nel tentativo di scongiurare l’avvento dello Shrike. Saranno i racconti dei sette a dipingere con solide pennellate il maestoso affresco intergalattico immaginato da Simmons.
Prima cosa: come scrittore sono rimasto impressionato dal grado di dettaglio messo in campo da Simmons per la sua ambientazione. L’Egemonia, il Nucleo delle intelligenze artificiali, il concetto di debito temporale. Molti degli spunti da lui impiegati li ritroveremo sotto altre forme nei decenni successivi (per esempio le macchine di Matrix con il loro tentativo di indipendenza richiamano molto il Nucleo delle IA di Simmons) a testimoniare quanto l’universo di Hyperion sia dettagliato e preciso. In una sola parola, impressionante. Impressionante la capacità dell’autore di condensare in un unico romanzo l’evoluzione umana da oggi a 700 anni nel futuro.
Seconda cosa: le storie dei pellegrini. Sono molto diverse da loro e qui l’arsenale letterario di Simmons viene impiegato al suo meglio. Anche quando non succede nulla di eclatante, anche quando la narrazione è preparatoria a ciò che verrà, le pagine scivolano una sull’altra. Personalmente, la mia storia preferita è quella di Sol Weintraub.
Terza cosa: l’etica e le riflessioni socio-filosofiche. Agli sventurati che considerano la fantascienza una ‘cosa di astronavi’ l’autore risponde per le rime. L’espansione dell’Egemonia, la costruzione di un Teleporter su un sistema prima raggiungibile solo grazie ai viaggi spaziali, l’evoluzione umana negli Ouster. Sono tutti temi molto importanti e molto attuali, soprattutto in questo presente così tribolato. La storia di Patto-Maui e della sua estreme resistenza contro la rete dei mondi, al netto dei giudizi politici, non può non ricorda la Grecia dei giorni nostri.
Quarta cosa: l’amore per il passato. Simmons ha dimostrato e sta dimostrando di avere un grandioso talento anche per quanto riguarda i romanzi ad ambientazione vittoriana. Il suo ‘Drood‘ (2009) e il recente ‘The Fifth Heart’ (2015) hanno per protagonisti personaggi ottocenteschi (Charles Dickens, Wilkie Collins e poi Henry James e Sherlock Holmes). L’importanza che il poeta ottocentesco John Keats ha nell’economia complessiva di ‘Hyperion’ è una chiaro indizio di questa sua passione e l’accuratezza con la quale disseziona la vita di Keats per metterla al servizio della sua storia è notevole.
Concludendo ‘Hyperion’ è un libro forse unico nel suo genere. E’ complesso ma mai pedante e se anche non arriva a una conclusione definitiva della storia compone un mosaico che, per gli amanti della lettura e della scrittura, funge da vero e proprio manuale.
Lo puoi trovare qui:
Ogni volta che leggo un romanzo una delle prime domande che mi faccio é: quali sono stati i catalizzatori narrativi per l’autore? Che cosa ha acceso la scintilla della creatività portandolo a sviluppare proprio la storia che sto leggendo? ‘Danza Macabra’ (Carrion Comfort, 1989), come tutti i romanzi di Simmons, è in grado di dare risposte sorprendenti a queste domande.
La storia inizia durante la seconda guerra mondiale, nel campo di concentramento di Chelmno, dove Saul Laski lotta per sopravvivere agli orrori della soluzione finale tedesca. Lì, tra le pieghe dei mali più oscuri mai compiuti dall’uomo, incontrerà l’Oberst Wilhelm Von Borchert, alias William Border, uno dei vampiri della mente che saranno al centro dell’intero romanzo. La narrazione si sviluppa intrecciando la caccia di Laski al carnefice nazista con gli intenti dell’Island Club, un ricchissimo circolo privato al quale possono accedere solo altri vampiri della mente, e con il Trio composto da William Border, da Melanie Fuller e da Nina Drayton. I normali esseri umani (Laski e altri compagni di lotta) inizieranno una micidiale partita a scacchi, altro tema ricorrente, contro questi esseri capaci di controllare la mente. Perché questo sono i vampiri: entità selvagge e primordiali, scherzi evolutivi della natura in grado di imporre la propria volontà sui comuni uomini, tanto da creare servitori perfetti incapaci di qualunque pensiero indipendente e asserviti ai loro desideri.
Campi di concentramento, scacchi, le teorie sullo sviluppo cognitivo e morale di Lawrence Kohlberg, il potere, la depravazione e la più assoluta mancanza di inibizioni che un talento come quello dei vampiri catalizza: ecco gli ingredienti che compongono ‘Danza Macabra’. Ecco, secondo me, le idee dalle quali Simmons ha tratto ispirazione per la sua monolitica opera (parliamo di quasi mille pagine). Leggendo ho ritrovato alcune delle atmosfere tratteggiate da F. Paul Wilson nel suo eccellente ‘La Fortezza’ (1981) , soprattutto nei blocchi narrativi legati ai campi di concentramento e all’inumana crudeltà di Wilhelm Von Borchert e del suo Der Meister, ed è molto affascinante vivere la percezione che capaci autori americani hanno dell’olocausto.
In questo romanzo risalta la più totale assenza di speranza per gli uomini normali nel confrontarsi contro l’Oberst, la Fuller, C. Arnold Barent – il presidente dell’Island Club – o qualunque altro, più o meno potente, vampiro della mente. La lotta è impari e gli apparati più efficienti dell’intelligence umana sono corrotti oltre ogni possibile redenzione. Laski e i suoi compagni sono pedoni sulla maligna scacchiera predisposta dai vampiri e l’unica cosa che riescono a fare è condurre i pezzi portanti di questa lotta l’uno davanti all’altro sperando che, in accordo con le leggi di Kholberg, la loro appartenenza al Livello Zero dello sviluppo morale ne determini le azioni.
Ma, in ultima analisi, il fallimento è l’unica opzione possibile. Il messaggio ultimo del romanzo è tremendo e terribile: certo, si può tentare di combattere. Sacrificando le cose più care, scendendo a spietati compromessi, aggrappandosi alla propria coscienza e cercando di salire i Livelli Morali tracciati da Kohlberg si può tentare di contrapporre la propria semplice umanità all’involuta razionalità dei vampiri.
Ma comunque vadano le cose, per quanto un pedone possa trasformasi in un nuovo, micidiale pezzo, la partita a scacchi che ‘Danza Macabra’ rappresenta si giocherà sempre a un livello così alto da relegare l’uomo comune al ruolo di spettatore.
Il romanzo, proprio a causa della sua estrema ricchezza, non è privo di difetti. A volte indugia un troppo in regioni concettuali difficili da seguire e altre volte le motivazioni di personaggi così sociopatici come i vampiri restano difficili da trasmettere senza richiedere al lettore un ‘atto di fede’.
Ma, nel complesso, è un affresco maestoso, cinico e terrificante. Simmons ha una penna fenomenale, questo non lo scopro di certo io, ma in ‘Danza Macabra’ ci presenta un’inedita versione di sé.