Per prima cosa, vorrei sgombrare il campo da ogni possibile equivoco: ‘Gli dei invisibili di Marte’ (The Martian Inca, 1977) non è un romanzo facile e non è di semplice lettura. La struttura lo semplifica perchè a tutti gli effetti si sviluppa con due blocchi narrativi che si sfiorano in alcuni punti ma che hanno una grande autonomia: da un lato l’avventura terrestre di un risorto e rigenerato Inca, dall’altro una missione spaziale di tre uomini impegnati nella colonizzazione di Marte. Come trait d’union tra i due blocchi, e questa è la parte più riuscita e intrigante del romanzo, gli interventi delle strutture governative (sia attraverso l’evoluzione della CIA, sia attraverso la nuova NASA) che cercano di gestire la scoperta di queste catalizzatrici forme di vita marziane. Ma si tratta comunque di una parte assolutamente marginale della narrazione.
Che dietro la parte terrestre del romanzo ci sia una circostanziata e precisa critica ai giochi politici dell’occidente nei confronti di paesi militarmente meno evoluti, e che ci sia il sogno di indipendenza di una nazione vessata da dittature militari, è un dato di fatto. Ma che a questo si accompagni una maniacale attenzione ai dettagli della cultura Inca fino a sfiorare una visionarietà troppo pesante, è altrettanto evidente. I passaggi mistici rallentano molto la prima parte della narrazione terrestre portando il lettore a desiderare che il punto di vista si sposti, in fretta, all’avventura spaziale dei tre astronauti in viaggio verso Marte.
La cosa curiosa è che nell’ultimo terzo del romanzo questa tendenza si inverte connotando la missione marziana di un misticismo che la appesantisce (sopratutto attraverso lunghi e faticosi monologhi) e al contrario alleggerendo la parte terrestre facendola diventare decisamente più leggibile soprattutto perché aumenta l’azione e i giochi politici acquistano più peso e significato.
Come dicevo, non è affatto un romanzo facile e a tratti, soprattutto per quanto riguarda la capacità delle forme di vita marziane di catalizzare la coscienza degli ospiti, richiama un po’ il Monolito di Stanley Kubrick. Però anche qui, nelle ultime pagine o quasi, Watson cambia idea e abbandona la via metafisica in favore di una trattazione chimico-fisiologica che, anche per chi ha una formazione scientifica, è a bassissima digeribilità.
Quali che fossero gli intenti dell’autore ho il sospetto si siano realizzati a metà proprio per la grande differenza di contenuti e di ritmo delle due parti e a causa dell’inversione a cui i due blocchi narrativi vanno incontro. Molte idee, ma troppo scollamento tra loro.
Sarebbe proprio il caso di dire: un po’ più elementare, Watson.
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