E’ sempre difficile giudicare un film che alle spalle ha un grande libro senza cadere nella trappola (temo inevitabile) del confronto tra la versione di celluloide con quella, originale, cartacea. Ma, in un modo o nell’altro, proveremo a farlo.
Richard J. Lewis non è uno di quei nomi che viene spontaneo associare a qualche film di successo e, in effetti, se diamo una scorsa al suo curriculm ci si trova davanti un solido mestierante che dal 1988 si fa la ossa con serie TV (alcune di tutto rispetto come CSI) e rarissimi lungometraggi, sempre per il mercato televisivo.
Eppure, opinione che sto iniziando a maturare grazie a riscontri come questo, un regista non brillante, con un ottimo materiale di partenza, può essere la scelta vincente. Perchè consapevole dei propri limiti, si ritaglia un ruolo marginale nell’interpretazione del testo primigenio e si limita ad adattarlo alle esigenze cinematografiche.
E’ questo il caso de ‘La Versione di Barney’. Il romanzo di Mordecai Richler meriterebbe una recensione a parte (e magari, se vi va, la potete recuperare sul mio Anobii, qui accanto) perciò mi limiterò a dire che si tratta di un difficilissimo capolavoro, le cui caratteristiche peculiari non sono per nulla adatte ai tempi compressi del cinema.
Eppure la pellicola funziona, eccome. Perchè? In primo luogo tutto il cast, nessun personaggio escluso, funziona alla grande (forse complici esperti e navigati addetti al casting). Paul Giamatti, il cui talento è indiscusso, qui si impegna in una performance di altissimo livello e lo seguono, passo passo, Dustin Hoffman nel ruolo di Izzy Panfosky la cui caratura ha portato il regista ad allargare un po’ il ruolo che originariamente aveva il suo personaggio nel libro.
Come dicevo, il film funziona. Caustico al punto a giusto, commovente, equilibrato fa proprio della capacità degli attori il suo elemento vincente senza mai forzare la mano nella narrazione. La storia scivola via in modo vivace e fluido, senza strappi, e già questo è un bel risultato per un film che, comunque, ha la sua complessità. I personaggi vengono inquadrati molto rapidamente in tutte le loro caratteristiche e anche questo è un merito di cui bisognare dare atto al regista che, avendo a disposizione un tempo limitato, riesce comunque a non darci la sensazione di essersi perso qualcosa.
Due soli nei. Il primo riguarda un cambio di ambientazione che critico non tanto per il passo di lato rispetto al romanzo, quanto perchè in effetti indebolisce un po’ il senso di alcune sottotrame. Spostare gli anni del giovane Barney da Parigi a Roma è una scelta piuttosto azzardata e infelice (poco ha a che fare Roma con l’atmosfera da bohémien dei ventenni Boogie, Terry McIver, Leo e così via) che mi spiego solo come forzatura da parte della produzione (Domenico Procacci). Per quanto vedere Massimo Wertmuller, anche se per pochi minuti, non mi è disipiaciuto.
Il secondo non è colpa del regista e, a mio parere, non poteva essere evitato. E’ un’inevitabile senso di perdita che ti accompagna per tutto il film. Ogni fotogramma, ogni ambientazione, ogni scorcio di paesaggio che vediamo è troppo silenzioso. Mi veniva spontaneo sentire la mancanza della voce di Barney che, nelle pagine del romanzo, ci accompagna in ogni fotogramma, ogni ambientazione, ogni scorcio di paesaggio con la sua sconclusionata ricostruzione dei fatti. Per l’appunto, ‘La Versione di Barney’.