Piccola premessa: ho avuto il piacere e la fortuna di vedere questo film grazie alla bella selezione dell’edizione 2019 di EstAsia, il festival di cinema asiatico che si tiene a Reggio Emilia e del quale sono stato fortunato ed entusiasta giurato nell’edizione del 2018. Il grande merito di eventi come EstAsia è quello di portare oltre le porte dell’Oriente pellicole di grande valore che difficilmente troverebbero posto nel palinsesto canonico dei nostri cinema. E quando si incappa in film come Tumbbad, un grande grazie è d’obbligo. Ma andiamo con ordine.
Nel 1993, durante una gita nel pittoresco parco naturale di Nagzira un ragazzo indiano quattordicenne ascolta una storia del terrore. E’ un amico a raccontargliela e la narrazione, l’entusiasmo e la ricchezza di dettagli lo terrorizzano. Letteralmente. Quel ragazzo si chiama Rahi Anil Barve è sceglierà di raccontare parte di quella storia, di quel racconto spaventoso che lo ha così profondamente segnato, facendone un film che chiamerà Tumbbad e che vedrà la luce venticinque anni dopo la catalizzante gita a Nagzira.
Tumbbad esce nel 2018 dopo un percorso lungo e piuttosto travagliato (per dare un’idea Sohum Shah, l’attore protagonista, è ingrassato otto chili per la parte e ha mantenuto lo stesso aspetto fisico per sei anni, la durata della produzione) ed è il film d’esordio di Rahi Anil Barve che dimostra però di essere un attento conoscitore ed esteta del genere horror. Ma di cosa parla il film?
Il motore della pellicola è un’oscura leggenda sul dio ribelle Hartan, figlio della Dea della Prosperità Madre di tutti gli Dei. Ingordo, avido e desideroso di potere Hartan si ribella alla madre e ai molti fratelli impadronendosi prima dell’infinito oro che la Dea possiede e poi cercando di fare suo anche il grano, alimento degli uomini e degli stessi Dei. Scoppia una guerra furiosa e Hartan viene quasi ucciso dai fratelli ma la madre, compassionevole, lo salva imprigionandolo nel suo grande ventre e lanciando però su di lui una maledizione: può continuare a vivere ma nessuno potrà mai più adorarlo. Già dai primi minuti Barve dimostra di aver studiato il genere horror anche e soprattutto fuori dai confini della caleidoscopica Bollywood. La sequenza iniziale in cui viene raccontata la storia di Hartan strizza l’occhio alla grandissima capacità visiva di Guillermo Del Toro e del suo secondo HellBoy: The Golden Army.
The world has enough for everyone’s needs, but not for everyone’s greed
MAhatma gandhi
Questa è la frase di apertura del film ed è, in sostanza, l’architrave su cui si regge l’intera narrazione. Dopo la leggenda di Hartan, Barve inizia a raccontarci una storia diversa. Siamo nel 1917 in una povera e dissestata provincia indiana dove il giovane Vinayak Rao (forse alter ego del regista? Anche lui affascinato dalla stessa leggenda che ha segnato Barve?) sogna ricchezze e fasti che non gli appartengono. Ed è proprio inseguendo la ricchezza e le farneticazioni di una centenaria bisnonna incatenata nelle viscere della casa che Vinayak scoprirà quanto c’è di vero nella leggenda di Harlan.
Barve si muove con una destrezza sorprendente per un regista all’esordio. Sullo sfondo della vicenda tratteggia con pennellate decise e dalle tinte forti la storia dell’India, dall’era coloniale inglese fino alla sua indipendenza, nel 1947, quasi a evidenziare come le ambizioni delle persone potrebbero (o dovrebbero?) seguire quelle di una nazione che cerca la sua identità. Se l’India riesce a liberarsi dal giogo inglese perché un uomo non può sconfiggere il demone dell’avidità? Perché non può cercare un destino oltre l’ingordigia e la sete di denaro?
Avidità. Ingordigia. Sete di potere. Tre concetti che Barve decide di incarnare, nel vero senso del termine, dando a tutti loro un nome e un volto: Hartan, il Dio caduto. Anche in questo il regista dimostra di non essere un turista nella narrazione horror: ha studiato, richiama mitologie non propriamente indiane (la ribellione di Hartan ricorda quella dei Titani, così come la Dea Madre ha diversi riferimenti nei miti più europei) e dimostra di aver interiorizzato anche gli stilemi dell’horror occidentale. Ma non li ripropone, anzi, se ne tiene ben lontano non offrendo mai soluzioni banali, non scegliendo mai la via più facile, ma tenendo il suo potente obiettivo sempre puntato su Vinayak e sulle persone che ruotano intorno alla vita del protagonista.
Tumbbad ha anche molto da dire dal punto di vista tecnico: effetti speciali (dosati in modo molto intelligenti senza mai abusare della computer grafica), una colonna sono davvero potente, una fotografia azzeccata e scelte di regia davvero interessanti. Spulciando nella storia del film poi si scopre che è stato girato quasi interamente durante la stagione dei monsoni, nel 2012 e un clima ostile è una particolarità con la quale non siamo molto abituati a fare i conti: la pioggia c’è, è sempre presente e Barve riesce in qualche modo a farla diventare parte integrante di ciò che ci vuole raccontare, una sorta di personaggio inanimato che ci accompagna per tutta la durata del film.
E alla fine di tutto c’è la quarta parete che Barve abbatte, a modo suo. Con le ultime battute del film, dopo che abbiamo seguito le vicende di Vinayak, di suo figlio e di Harlan ci rendiamo conto di essere anche noi come il protagonista. Alla ricerca di qualcosa che non possiamo avere, forse intrappolati dal desiderio delle nostre ambizioni, incapaci di uscire da un circolo vizioso che finirà col distruggerci. O forse no?
Ultima nota: Harlan, nella mitologia indiana, non esiste. Ma anche a questo Barve ha pensato. La maledizione della Dea Madre spiega perché nessuno abbia consapevolezza del Dio rinnegato: il suo nome è bandito, non può avere fedeli, nessuno ne conosce nemmeno il nome. Se non i pochi, sfortunati abitanti di un lontano villaggio che si chiama Tumbbad.