Ci sono voluti due anni perché, dopo il premio ricevuto al Toronto International Film Festival del 2015, The Devil’s Candy raggiungesse anche le sale italiane entrando a far parte della scuderia Midnight Factory. Due anni di attesa, qui è arrivato nel 2017, ma ne è valsa la pena?
The Devil’s Candy, scritto e diretto dal talentuoso australiano Sean Byrne, è un film sul diavolo e un film sul metal, o meglio, è anche un film sul diavolo e anche un film sul metal. Il diavolo che avvelena la mente dei più deboli costringendoli a compiere azioni terribili a danno dei più giovani e indifesi, che li spinge a raccogliere le dolci caramelle umane a cui fa riferimento il titolo. E il metal che ha un ruolo salvifico del tutto inedito. Il pittore appassionato di metal Jesse Hellman (uno stralunato ma efficace Ethan Embry), la moglie Astrid (Shiri Appleby) e la figlia Zooey (la bravissima Kiara Glasco), dovranno confrontarsi con i poteri satanici che infestano la loro nuova casa. Hellman, l’uomo dell’inferno. Un nome, un programma.
Fin qui niente di così nuovo ma questa pellicola è piena di sorprese.
Il volto del male
Quali sono gli ingredienti perfetti per creare la giusta, inquietante atmosfera di un film a tema demoniaco? Uno dei più importanti è di certo il malvagio, l’antagonista, il nemico da combattere. In The Devil’s Candy l’agente del diavolo è Ray Smilie e ha il sinistro volto di Pruitt Taylor Vince: già questa scelta, di per sé, crea un interessantissimo cortocircuito concettuale.
Taylor Vince nel 2003 ha recitato nello squisito thriller Identità dove il suo personaggio, Malcom Rivers, era affetto da personalità multiple. Nel 2005, in Constantine, ha vestito i panni di Padre Hennessy, un prete con la rara capacità di parlare con i morti. In The Devil’s Candy è come se i ruoli a lui assegnati in passato raggiungessero un apice narrativo, come se personaggi fino a quel momento slegati tra loro fossero destinati a culminare nel pazzo Ray Smilie. Sotto molto punti di vista Ray è una fusione folle di Malcom Rivers e di Padre Hennessy e ne incarna alla perfezione tutti gli aspetti più macabri.
Un gioco di specchi e ombre
Un altro ingrediente fondamentale per un buon horror è l’atmosfera e qui il regista Sean Byrne spara alcune delle sue cartucce migliori.
Nell’ecosistema horror la musica metal ha spesso un significato a dir poco negativo come il film culto Morte a 33 Giri (1986) raccontava. Qui Byrne cambia le carte in tavola. Il metal non è catalizzatore del male, non è uno strumento attraverso il quale il diavolo può far sentire la sua voce. Ma è tutto l’esatto contrario. Tanto più che sarà la pittura, e non il metal, a servire da tramite tra Jesse e il maligno. Ray Smilie ricorre alla musica quando cerca di non ascoltare le parole del diavolo e suonando la sua chitarra riesce a resistere. Ma perde ogni difesa contro la voce del maligno quando si dedica a programmi religiosi, quando cerca di abbracciare la normalità. Anzi, utilizza proprio le prediche televisive come colonna sonora per i suoi terribili delitti.
Ed è il rovesciarsi di una croce che scatena, di nuovo, la furia omicida si Smilie. Mentre il metal, denso di simboli che possono richiamare il diavolo ma che nulla hanno a che fare con esso, mantiene una sua purezza. Il contrasto con l’insistenza della religione nel cercare il diavolo dove non si trova veramente è suggerito, non urlato, e questo contribuisce a creare un clima molto convincente.
Il coraggio di osare
Byrne crea una storia indipendente e intelligente. Lo fa disseminando di indizi e suggestioni lungo tutta la pellicola senza però mai esagerare e, soprattutto, senza far sentire allo spettatore l’ingombrante presenza del regista. Questo è il modo migliore per precipitare chi guarda dentro le proprie visioni: suggerire in modo non esplicito.
Così la galleria d’arte Belial e il suo inquietante proprietario Leonard (un mefistofelico Tony Amendola) richiamano senza inutili manierismi il demone Belial dell’Antico Testamento lasciando intendere che il diavolo ha agenti disseminati ovunque, messaggeri che lusingano con la promessa del successo e spingendo al sacrificio delle cose più care. Tematica, questa del successo, trattata in maniera eccelsa nel bellissimo L’Avvocato del Diavolo (1997), film che ha alcuni punti in comune con The Devil’s Candy (è la bravura di una avvocato e non il talento di un pittore ad attirare il maligno).
Allo stesso modo la fotografia della famiglia Hellman mostrata da Byrne sulle note degli Spiderbait che ci ricordano che tutti siamo ‘Already Dead’ è una macabra profezia di quello che potrebbe accadere a Jesse, ad Astrid e a Zooey. Byrne osa, si affida all’intelligenza del pubblico senza prenderlo in giro. E, soprattutto, fa quello che deve senza mai rallentare. The Devil’s Candy sa anche essere crudo, terribile, mortale e spietato.
L’arte del diavolo
Ultima ma non ultima, la musica metal che fa da colonna sonora a tutta la pellicola. Byrne la utilizza molto bene facendola diventare il quinto personaggio fondamentale dell’intera vicenda. In realtà Byrne si spinge più in là: usando montaggi deliziosi (l’assassinio tutto sangue e violenza di una delle vittime di Ray si alterna con la pittura di Jesse mescolando sangue e colore) rappresenta l’arte come una metafora delle caramelle del diavolo a cui fa riferimento il titolo. Dolce, squisita ma che può avere un prezzo molto salato.
Nel complesso The Devil’s Candy è un ottimo film, anche e soprattutto per la freschezza del regista, per le sue scelte coraggiose e per la voglia di sperimentare. Unico neo? Forse, visto il solido impianto costruito da Byrne, un finale più cattivo ci poteva stare.