The Boys, serializzazione dell’omonimo fumetto nato dalle penne di Garth Ennis e Darick Robertson, è senza ombra di dubbio uno dei prodotti streaming (e non solo) più interessanti del 2019. Lo è perché cavalcando l’onda parla di supereroi, e nell’anno di Avengers: EndGame gli uomini in costume sono una vera e propria miniera d’oro. Lo è perché ne parla facendo importantissimi passi di lato rispetto a casa Marvel e alla sfortunata casa DC che pare aver avuto un rigurgito di saggezza abbandonando almeno per ora le pellicole corali. Lo è perché tutto, a partire dal cast, funziona molto bene (Antony Starr è perfetto nella sua ambiguità).
In The Boys i protagonisti non sono i supereroi ma ‘I ragazzi’, quattro comuni esseri umani che per ragioni diverse (ma simili) decidono di lanciare un improbabile guanto di sfida ai sette supereroi più famosi al mondo. Uno degli elementi più appariscenti della serie è l’approccio dissacrante e non politicamente corretto. Un evolvere la visione cinica del supereroe che già Moore aveva inquinato con la negativa normalità di Edward Blake, il suo Comico, ed estenderla fino a far diventare il super un vero e proprio catalizzatore di realpolitik. Nella sottotraccia della serie, ma nemmeno poi così di nascosto, le capacità di Homelander e compagni vengono impiegate per scalate economiche e politiche. Per la sottoscrizione di contratti con l’esercito, per l’utilizzo dei superuomini in operazioni di sicurezza interna, nazionale e persino per missioni internazionali. Anche qui viene mutuato l’intervento del Doc Manhattan di Moore durante la guerra in Vietnam ma se lì era tutta una questione di prestigio politico e militare, qui il fattore economico e di immagine ha comunque il sopravvento.
E’ con i soldi che la Vought-American di Madelyn Stillwell (una Elizabeth Shue così naturale da essere persino disarmante nella sua normalità di cinquantaseienne) cerca di comprare i sentimenti di Hugh “Hughie” Campbell (Jack Quaid), è la necessaria purezza dell’immagine dei Sette a determinare tutte le campagne social cui Starlight (Erin Moriarty) deve sottoporsi. The Boys offre un interessante cambio di paradigma rispetto a quanto già affrontato in altri ambiti fumettistici. In Watchmen si cercava di capire come il mondo avrebbe reagito alla comparsa di supereroi, e come questi avrebbero reagito alla persistenza di conflitti impossibili da cancellare. In alcune saghe Marvel i supereroi erano una minaccia da controllare, da far rientrare all’interno dei comuni flussi di potere (Civil War) e i mutanti un’abiezione a cui opporsi con la massima energia. Qui sono Sette, come i peccati capitali, e in qualche modo a ciascuno di loro si potrebbe assegnare un vizio. Altro indizio che niente è davvero come sembra?
In The Boys i supereroi sono una creatura della Vought-American. Non c’è nessun salto evolutivo, nessun incidente in laboratorio, nessuna creatura mitologica reincarnata. In The Boys i super derivano da un cinico progetto di industrializzazione dei superpoteri, di scalata politico/economica della Vought che ambisce a diventare la prima azienda nella gestione della sicurezza interna e per le missioni militari all’estero. Anche qui, viene mutuato qualcosa da Watchmen ma di nuovo se il punto di partenza è simile quello di arrivo è del tutto diverso. Non c’è nessuna volontà di una pace universale. L’involucro creato da Ozymandias in Watchmen, la mostruosa creatura aliena, aveva come unico scopo l’unire la razza umana contro un nemico comune. Qui i laboratori della Vought concepiscono i super ma con l’unico obiettivo della supremazia. Fino a che punto? Fino a dove è disposta a spingersi Madelyn Stillwell? I boys ce lo mostrano. Non c’è limite. I super non sono lì per difendere nessuno. Anzi. Sotto molti aspetti la difesa dei deboli è del tutto accidentale. E’ una cosa da dosare, da dispensare poco alla volta e solo se questo è compatibile con la necessaria popolarità che i super DEVONO avere.
Poi arrivano gli ultimi. Arrivano Starlight e Hughie. La prima si è forgiata nella convinzione che il mito dei super sia vero. Sono creature predestinate il cui unico scopo è salvare e proteggere i più deboli e lei, che ora ne fa parte, ha finalmente raggiunto lo scopo di una vita. Poi c’è Hughie. Essere umano mediocre, incerto, incapace di lottare perché cresciuto dal padre nella convinzione che essere arrendevoli sia l’unica scelta possibile soprattutto in mondo dominato sempre più dai super. E’ da questi ultimi che riparte la storia dei ‘ragazzi’. Supercriminali e supereroi sono entità concepite in seguito a un elaborato piano di marketing economico. Ma Starlight e Hughie no. Sono mutazioni secondarie di un mondo sotto il controllo genetico/politico della Vought e come tali appaiono incontrollate e incontrollabili, del tutto fuori sistema. In qualche maniera, di nuovo viene saldato un debito con il Moore di V per Vendetta.
Il messaggio di fondo, quello che troviamo tra le righe, è assoluto specchio dei tempi moderni. Se la Vought incarnasse governi e multinazionali, se i super fossero gli organi amministrativi di queste multinazionali o le propaggini di potere dei governi, e se tutto fosse incentrato sul controllo assoluto, a noi cosa resterebbe? I ragazzi. Gli ultimi. La rivoluzione, da una parte armata, dall’altra da dentro il sistema, parte proprio da loro. Dai perdenti, o dai puri, che vengono accomunati nella vessazione. E che diventano primi. Serie TV e cinema, anche nei loro prodotti peggiori, incarnano alcuni aspetti del presente. C’è aria di ribellione tutto intorno a noi, oppure sono solo sofisticate metafore a uso e consumo di chi vuole grattare sotto la superficie?