Se dovessi pensare a un filone cinematografico del quale è stato detto molto e nel quale investirei poco o nulla, uno dei primi che mi viene in mente è quello delle pellicole a tema ‘possessione‘. Per due motivi: il primo è il confronto impari con il capostipite nominale di tutto, ‘L’Esorcista‘ (1973) di William Friedkin. Il secondo è l’indelicato abuso al quale il tema demoniaco è sottoposto negli ultimi anni. Film come ‘Il Rito‘ (2011) e ‘L’altra faccia del diavolo‘ (2012) hanno affossato ogni entusiasmo e ogni spiraglio di originalità.
‘The Possession’, a essere onesti, non è esattamente un mostro di genialità. In linea generale la trama è piuttosto telefonata (cosa succederà, come proseguirà la possessione, e via dicendo) in più il suo tentativo di citare elegantemente ‘L’Esorcista’ deflora in modo maldestro che, purtroppo, fa anche sorridere (ogni volta che vediamo un adulto gridare a una ragazzina posseduta ‘Prendi me’ ci aspettiamo che il pathos sia almeno paragonabile a quello dell’originale).
Detto questo, dismesse le aspirazioni di una storia innovativa, ‘The Possession’ non è un brutto film, anzi. La trama è semplice ma efficace: una ragazzina entra in possesso di un’antica scatola di legno la quale diventa una vera e propria ossessione. Il suo contenuto è inquietante: denti di animale, piccoli mammiferi e insetti essiccati, uno specchio ottonato e strani contenitori di piombo. Una volta aperta qualcosa che è rinchiuso al suo interno si libera e inizia a tormentare la giovane, trainando la storia verso un epilogo intuibile.
Tra i meriti c’è un cast che funziona quasi nella sua totalità (la giovanissima Natasha Calis è molto brava, Jeffrey Dean Morgan fa la sua parte mentre Kyra Sedgwick, complice il troppo botulino, non convince) e una trama che segue un filo logico strutturato e non tenuto insieme con il nastro adesivo.
Scopriamo infatti che all’interno della scatola era rinchiuso un dybbuk, spirito maligno della tradizione ebraica. Questo, a tutti gli effetti, è un punto vista inedito nei film di genere. Se la comunità ebraica che rivela lo scopo della scatola viene mostrata in modo ingessato e stereotipato, gli accenni al dybbuk sono credibili e interessanti, così come l’inevitabile rito dell’esorcismo. Ci sono ingenuità proprie di una sceneggiatura frettolosa ma l’atmosfera regge e, pur muovendosi su binari consolidati, non annoia. Ole Bornedal, d’altra parte, non è un turista del thriller (suo è ‘Il Guardiano di notte‘, 1994-1997 che vede tra gli interpreti Nikolaj Coster-Waldau, alias Jaime Lannister de ‘Il Trono di Spade‘), e se l’inedito non è il suo forte, sa invece come dirigere gli attori. In più, e questo è invece un passo avanti rispetto ai predecessori, in una sequenza ben riuscita Bornedal si immagina come la moderna tecnologia, nel caso una risonanza magnetica, riesca a interagire e digitalizzare qualcosa di così spirituale come una possessione. Il risultato è azzeccato e inquietante al punto giusto.
Insomma, per tirare le somme, è un film che seppure non dice tantissimo di nuovo sul genere ‘possessioni’ ha una sua logica, una sua coerenza e alcuni momenti interessanti.
Per i curiosi l’idea della sceneggiatura è scaturita dall’articoli ‘Jinx in a box‘ scritto da Leslie Gornstein e pubblicato sul Los Angeles Times