L’inferno siamo noi
Albert Camus
Poche parole quelle con cui il filosofo francese definiva la sua visione di inferno. Poche parole che assomigliano a una sentenza per la quale non c’è possibilità di appello. E guardando ‘Il Buco’, lungometraggio d’esordio dello spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, sembra propria che la profezia di Camus abbia trovato in questa pellicola piena espressione.
La dinamica narrativa è tanto semplice quanto inquietante. Goreng (Iván Massagué) si risveglia all’interno di una piccola cella che condivide con l’inquietante Trimagasi (un fenomenale Zorion Eguileor, divinamente doppiato da Giorgio Lopez). Sul muro della cella un numero – 48 – al centro della cella un buco rettangolare che permette di sbirciare i livelli inferiori e quelli più alti. Sopra e sotto altre celle, altri prigionieri. E luci, di colore diverso: verde per quando sta per arrivare il cibo, rosso per quando il carrello (lo stesso carrello per tutti i livelli, lo stesso cibo che cala di fermata in fermata) viene riportato ai piani superiori.
Ritrovarsi nella fossa – questo è il nome dell’edificio rovesciato – è facile: o si è volontari, o si è ospiti della struttura perché criminali. E come funziona? Ogni mese la coppia di detenuti di ogni cella cambia di posto salendo o scendendo di livello. Ogni mese, per tutto il mese, il cibo portato dal carrello sarà sempre meno (o di più) in funzione del livello a cui si è assegnati. L’equazione è semplice: livelli alti, molto cibo, livelli bassi (Trimagasi è sceso oltre il centesimo livello), niente cibo. E un mese senza mangiare significa solo una cosa: morte certa. Inizia l’avventura di Goreng, la sua personale discesa nell’inferno della fossa.
Il Buco è un film altamente simbolico. È simbolico l’incipit narrativo, la preparazione maniacale di un banchetto destinato a essere violentato un giorno dopo l’altro. È simbolica la struttura dantesca della fossa, un girone dopo l’altro, l’umanità che va via via smorzandosi fino, è facile immaginarlo, alle abiezioni più cupe che abitano i livelli inferiori. D’altra parte il Conte Ugolino, per Dante, cannibale traditore per necessità in vita, cannibale per contrappasso all’inferno, occupa una porzione del nono cerchio, il livello più basso, l’enorme lago ghiacciato con al centro il diavolo in persona. Il tradimento non è solo simbolico – quello di Ugolino – ma è uno dei denominatori comuni di tutti gli inquilini della fossa. È anche simbolico, un visionario ribaltamento, il fatto che nella fossa di Gaztelu-Urrutia il livello più basso non ospiti il demonio ma bensì l’unica speranza possibile.
Da un lato il regista offre a noi e a gli ospiti della fossa un approccio piuttosto manicheo alla vita: chi sta sopra deve necessariamente disprezzare chi sta sotto. E chi sta sotto non può fare altro che odiare chi si trova al livello superiore. “È ovvio”, direbbe Trimagasi. È la schiacciante logica, cinico-economica, dell’oggi. Ed è l’ovvietà che scandisce buona parte dei conflitti sociali che hanno animato (e animano con virulenza variabile) la storia dell’uomo. Dall’altro Gaztelu-Urrutia ci attira con la più nobile delle consapevolezze: cosa succederebbe se ciascuno mangiasse solo ciò che gli è necessario? Non ci sarebbe forse cibo a sufficienza? E questa è una squisita, cinica, semplice ma estremizzata metafora della nostra contemporaneità. Il buco è, nell’anima e nell’occhio del regista, non solo l’Inferno composto da quel ‘noi’ camusiano, ma anche una riproduzione in miniatura di ciò che accade su scala planetaria. Il nostro inferno lo arrediamo tutti noi, giorno dopo giorno, con cura.
Perciò abbiamo Goreng, il suo simbolo, l’uomo che ama Don Chisciotte tanto da portare come unico oggetto a disposizione nella fossa una copia di quel libro e che come il cavaliere dalla triste figura, intraprenda la sua lotta contro i mulini a vento perché, citando Guccini “Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro perché il male ed il potere hanno un aspetto così tetro?” non può fare a meno di lottare. Abbiamo Trimagasi, il suo simbolo, l’uomo che è finito nella fossa per l’odio catalizzato da una banale televendita ma che decide di portare lì proprio il coltello affilatissimo, l’oggetto che indirettamente lo ha condotto al suo castigo. Abbiamo Baharat (Emilio Buale Coka), il suo simbolo, che sogna il riscatto, l’inversione della gravità sociale tanto da voler salire un livello dopo l’altro fino alla vetta. E abbiamo Miharu (Alexandra Masangkay), il suo simbolo, l’elemento fuori controllo che all’apposto di Baharat vuole scendere nelle viscere della fossa per scopi del tutto esterni alle dinamiche del buco.
Quattro simbologie, quattro filosofie quasi tutte destinate a fallire perché impegnate nel tentativo di combattere un ordine che non va sovvertito, ma compreso. Ecco il senso dell’unico, vero, simbolo. IL simbolo. La panna cotta, in prima battuta, l’inquilino del livello 333 (3 3 3, tre volte tre, un numero non casuale, guarda caso anche questo dotato di una potentissima simbologia) come risposta definitiva al quesito in apparenza irrisolvibile della fossa. La risposta non è assecondare il sistema, non è cercare di ingannarlo, non è sovvertirlo, non è giocare secondo regole diverse. La risposta è trovare IL simbolo giusto.
Il Buco è un film di fantascienza, questo ci tengo a dirlo. È fantascienza sociale. Intelligente, colta, cinica, visionaria. Questo per chiarire, una volta per tutte, che la fantascienza non solo conosce il presente. Ma sa sul futuro molto più di quanto sembri.
2 Comments
Nadia
Hai detto tutto, come sempre bravissimo.
Maico Morellini
Nadia grazie!