Per chi frequenta il cinema horror Mike Flanagan non è un nome nuovo. Il quarantaduenne nativo di Salem (quando si dice che “i luoghi determinano l’uomo”, citazione riadattata da Kingsman) ha un curriculum di tutto rispetto. Suo è l’occhio dietro la macchina da presa di pellicole riuscite come Oculus (2013) e Somnia (2016), di film meno brillanti ma comunque con più di un lato positivo come Ouija – Le Origini del Male (2016) e film che non mi hanno convinto come Il Gioco di Gerald (2017). Sua, anche, è la mano dietro The Haunting, serie antologica di Netflix che declina e interpreta il tema della casa infestata, andando a pescare dai grandi classici letterari sul tema. Ed è lui che si è preso la responsabilità di portare sul grande schermo l’adattamento cinematografico di Doctor Sleep, sequel concettuale (e non solo) di Shining, ovviamente firmato da Stepehen King. Ma soprattutto seguito cinematografico di quel colosso immaginifico/esistenziale che è stato lo Shining di Stanley Kubrik.
Flanagan opta per una sorta di narrazione circolare. Salda il conto con Shining nei primi minuti della pellicola rigirando alcune scene e disponendo sulla scacchiera i nuovi pezzi: Dan Torrence (un ammaccato ma piuttosto centrato Ewan McGregor) è cresciuto e la sua luccicanza (lo shining) non è più un bene così esclusivo. Ci sono altre persone che la possiedono, in forma più o meno abbagliante. E ci sono creature che se ne nutrono, vampiri energetici che attraversano la storia come quelli raccontati da Dan Simmons in Danza Macabra. La parte centrale della partita a scacchi impostata da Flanagan muove questi nuovi pezzi al centro della scacchiera: ci sono sacrifici, azzardi, trappole. La chiusura riporta in qualche modo all’inizio, chiudendo il cerchio: Dan e la giovane Abra (Kyliegh Curran) all’Overlook Hotel in un elegante e nostalgico (ma mai stucchevole) omaggio all’opera di Kubrik. Qui Flanagan si trova a suo agio. Corridoi, stanze e porte chiuse sono le cifre migliori della regia che lo contraddistingue e tutto è pronto per il gran finale: lo scontro tra Abra, Dan e la letale Rose (un’inquietante Rebecca Ferguson).
Flanagan fa un buon lavoro. Non brilla mai in modo deciso, ma al tempo stesso si mantiene in equilibrio all’interno di un ecosistema piuttosto complesso. La luccicanza, il Vero Nodo, Rose e il suo gruppo, la presenza di un mondo ‘altro’ che il regista può solo farci intuire. Elementi e concetti che si affastellano uno sull’altro e che potevano soffocare la narrazione trasformandola in una corsa contro il minutaggio, contro la regola aurea che riguarda la durata massima di un film horror. Invece questo non succede e anzi Flanagan riesce persino a inserire con forza e determinazione quello che secondo me è il concetto più interessante del film e che riassumo citando le parole di Dick Hallorann (Carl Lumbly): “Il mondo è un luogo affamato“.
Il mondo è un luogo affamato. In Doctor Sleep lo è ‘letteralmente’. Rose e il suo enclave vampirico si nutrono di energia vitale così come fa l’Overlook Hotel. Si nutrono della luccicanza. E lo fanno nel modo peggiore (Flanagan dimostra anche un certo coraggio nel mostrarci i riti dei vampiri, la loro seduzione del dolore). Ma c’è anche l’aspetto più metaforico di questa ‘fame’. Dan, Abra e come loro tutti quelli che possiedono la luccicanza sono persone capaci, dotate. Talentuose. Sono persone che hanno un qualcosa in più e che grazie a questo qualcosa in più hanno di certo opportunità di successo nella vita. E il mondo è affamato di successo. Il mondo, nella sua accezione più crepuscolare, mastica, assorbe e poi sputa ciò che resta di chi il successo poteva averlo. Quanto volte lo vediamo succedere? Giovani artisti che vengono fagocitati dalla fame collettiva, il bisogno di eroi che nell’arco di una mezza stagione vengono adorati prima e massacrati poi.
Il mondo è un luogo affamato e può finire col trasformarti. Dopo che ti ha sedotto, dopo che ti ha promesso gloria e immortalità, ti ritrovi prosciugato, incapace persino di riconoscerti, in balia di poteri famelici da cui non hai avuto la forza di scappare. Come accade a Jack Torrence, incapace di amministrare la sua luccicanza. E come accade allo stesso Dan travolto dalla fame, persino fisica, da ‘fan’ da post concerto, dell’Overlook Hotel. Non è un caso che Jack prima e Dan poi cedano alle lusinghe dell’alcool, di una dipendenza, di qualcosa che possa assorbirli completamente nel tentativo corrotto di far dimenticare loro quanto possono essere speciali. Flanagan, in questo senso, fa un ottimo lavoro. Doctor Sleep è un caleidoscopio dalle nobili ascendenze e i colori, le aspettative e le nostalgie potevano schiacciarlo offrendo ben poco se non uno sciapo sequel. Ma questo non succede e anzi, la fame del mondo di Flanagan resta in testa, inquieta e profetica, anche dopo i titoli di coda.