VOTO:
Se non vi piace il cinema parlato, se avete fretta, se storcete il naso quando il regista si prende alcune licenze e contamina i generi, allora ‘The Hateful Eight’ non è il film che fa per voi. Ma se almeno due delle tre voci di cui sopra pizzicano le vostre corde cinematografiche, allora l’ottavo film di Quentin Tarantino è quello che fa al caso vostro.
L’America si sta ancora leccando le ferite dopo la guerra di Secessione. La nazione è politicamente frastagliata e i focolai di ribellione sudista non sono del tutto estinti: la resa dei confederati ha di fatto posto fine al conflitto ma l’unità nazionale, per intenti e per condivisione ideologia, è ancora lontana dal realizzarsi. In un Wisconsin flagellato dal gelo il Maggiore Marquis Warren (Samuel Jackson), un ex ufficiale dell’Unione ora cacciatore di taglie, incrocia il cammino di John ‘Il Boia’ Ruth (Kurt Russel). I due divideranno la carrozza in compagnia di Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), condannata a morte e prigioniera del Boia. La tempesta li costringerà a cercare riparo per due giorni presso l’Emporio di Minnie ed è proprio in quel negozio che molti di loro troveranno la morte.
Perciò una carrozza, una grande stanza e tanta, tanta neve. Ecco gli unici set di ‘The Hateful Height’.
Se ‘Bowling for Columbine’ ci raccontava con la dovizia propria di un documentario la passione dell’America per le armi, ‘The Hateful Eight’ riesce a fare la stessa cosa senza sporcarsi le mani con una retorica che, in un film come questo, risulterebbe stopposa e indigesta.
Tutta la pellicola è cosparsa di monologhi ricchi e complessi sull’America post-seccessione, sulla giustizia, sulla forza degli ideali e sulle strane regole d’onore che anche le bande criminali hanno. Nel mondo di Tarantino (ma siamo sicuri sia così diverso da quello reale?) sparare a un uomo disarmato è una violazione della giustizia inaccettabile ma uccidere un secondo dopo lo stesso uomo se questo ha in mano una pistola non fa battere ciglio a nessuno.
All’interno di questo caleidoscopio concettuale che amalgama i ‘Dieci piccoli indiani’ di Agatha Christie con ‘Le Iene’, concedendosi derive splatter degne del Peter Jackson degli albori e flirtando con ‘Django Unchained‘ si muovono gli attori feticcio di Tarantino più gli altri comprimari. Se escludiamo il bolso Micheal Madsen sempre più vittima di sé stesso e che non mi ha per niente convinto, tutti gli altri svolgono alla perfezione la parte a loro assegnata. O meglio, vestono con carne e sangue, in modo impeccabile, il concetto che il regista assegna loro.
Lo fanno rappresentando a turno concetti radicati e radicali dell’America, e lo fanno mentendo creando così un cortocircuito molto, molto cinico. La lettera di Lincoln, il concetto di giustizia magistralmente espresso da Oswaldo Mobray (Tim Roth), il razzismo visto attraverso gli occhi di Marquis Warren e la gretta, rozza e intollerante filosofia di Minnie con il suo cartello: “Vietato l’accesso ai cani e ai messicani”. Le tre ore scorrono via veloci, a patto di abbracciare i dialoghi serrati e di assumere, a turno, il punto di vista di ciascuno degli otto. Morricone da par suo confeziona una colonna sonora per me sublime che strizza l’occhio, a meno che il mio orecchio afono non mi abbia ingannato, a ‘Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’. E non è un caso. In qualche maniera ci sono punti di incontro tra questi due film.
E i difetti? Pochi, ma presenti. Il più grande? Tarantino sa dove vuole andare, ha le idee molto chiare, ma non sceglie mai nessuno scorciatoia anche quando questa sarebbe auspicabile. Se dovessi pensare a una seconda visione so per certo che in alcuni punti, per qualche minuto non di più, manderei avanti a doppia velocità e questo è un difetto.
Con ‘Django Unchained’ avevo maturato la convinzione che il buon Quentin si fosse innamorato di sé stesso diventando così meno capace di comprendere le esigenze del suo pubblico. ‘The Hateful Eight’ mi smentisce e non posso che esserne molto lieto.
2 Comments
Mirko Grisendi
Io, in Tarantino non cerco più la perfezione ma mi godo la pura gioia della re-invenzione
…non pensi che il personaggio di Tim Roth sia un po’ troppo la fotocopia del Dr. Schultz in Django?
Maico Morellini
Ciao Mirko!
Noto alcune somiglianze, più che altro legate alla dialettica dei personaggi anche se Osvaldo Obrey ha davvero poco spazio nell’economica complessiva del film.
Nel caso di Django invece, per come la vedo io, tutto il film era tarato sul personaggio di Waltz e ne soffriva anche un po’!