VOTO:
Come iniziare la recensione di un film che dura poco meno di novanta minuti e che ha l’ambizione tutta filosofica di spiegarci cosa succederebbe a un essere umano in grado di utilizzare il cento percento delle sue capacità cerebrali? Ci provo: di sicuro qualcuno con quelle potenzialità non realizzerebbe un film come Lucy.
La trama è piuttosto semplice e pretestuosa: mentre Morgan Freeman (interpretato dal Professor Norman) ci spiega con flemma e con autocontrollo i nostri limiti mentali, dall’altra parte del mondo Lucy (Scarlett Johansson) viene coinvolta in un tremendo malinteso. Si ritroverà con un sacchetto di droga nello stomaco e per motivi non ancora del tutto precisati qualcuno la prenderà a calci tanto da far rompere l’involucro, liberando la catalitica sostanza nel suo corpo. Da lì in poi la festaiola studentessa interpretata da Scarlett finirà con il diventare l’unico essere umano a sfruttare il cento percento del suo cervello.
Lucy inizierà a filtrare, letteralmente, con la divinità mettendo in mostra una serie di potere noleggiati da tutti i film supereroici che stanno colonizzando le sale cinematografiche negli ultimi anni. Un po’ di Matrix, un po’ di X-Men, un po’ di Nikita: il tutto condito con un’indigesta salsa che ammicca alla scienza e al documentario. Risultato? Male, molto male. Lucy mena, e lo fa anche con diverse variazioni sul tema (ricordate: Ken il Guerriero usava il settanta percento del suo cervello ed era maestro nel devastare di sberle in modo creativo), ma quando cerca di spingersi più in là il ‘naufragar m’è dolce in questo mare’.
La trama zoppica e lo fa in modo costante per tutta la durata del film optando per scelte di comodo e pretestuose che potrebbero anche essere accettate in favore di un disegno più grande, ma semplicemente il disegno più grande non c’è. L’impianto filosofico si disinnesca da solo quando Lucy, arrivata al massimo della sua evoluzione, decide di diventare un computer. Già visto. Il recente e glaciale Transcendence, per quanto difettoso, almeno chiariva subito che tipo di impianto avrebbe adottato. Qui la ‘final destination’ evolutiva è una chiavetta USB stellata dopo che Lucy ci ha portato a ritroso nel tempo sfoggiando una pletora di effetti speciali a tratti persino deludenti.
L’approccio è scanzonato, e va bene, ma allora tutta la parte pseudo esistenzial-evoluzionistica diventa un colossale buco nell’acqua. Forse che la destinazione ultima di Lucy, l’informatizzazione del suo sapere, sia un’ironica lettura di dove l’evoluzione dell’uomo sta andando? Forse. Forse che il raggiungimento della divinità tramite una ‘banale’ droga nasconda una critica alla deriva medico-farmacologica della società? Forse.
Forse. Può essere. Può darsi. Ma sono interpretazioni stiracchiate, sforzi intellettivi che solo il nome del regista e l’impegno di un cast così importante mi costringono a tentare. Insomma, Prometheus faceva acqua da tutte le parti ma visivamente era una bomba mentre qui nemmeno l’impianto scenografico è così travolgente.
Di questo film mi resterà la telefonata di Lucy alla madre e la foresta multicolore di segnali telefonici che la protagonista riesce a manipolare e che potete vedere nell’immagine di testa.
Tutto il resto, come cantava il poeta, è noia.