VOTO:
Questa recensione/analisi è stata pubblicata integralmente sul numero 29 del Living Force, fanzine del Fan Club Yavin 4.
Quando si pensa alla magia di solito fanno capolino tra i nostri pensieri o barbuti stregoni o illusionisti intenti a deliziare il pubblico con giochi di prestigio.
Eppure c’è un’altra arte che è in grado di distillare gli stessi portenti: il cinema. Proprio quando ci si sta per rassegnare all’idea che certe emozioni siano retaggio di un passato destinato a non ripetersi, ecco che c’è qualcuno pronto a smentirci.
E questo qualcuno, negli ultimi anni, è un ragazzo londinese classe 1970 che mastica cinema da quando di anni ne ha sette. Questo qualcuno potrebbe essere, se non lo è già, la versione secondo millennio di quel cinema che negli anni settanta ha rivoluzionato la settima arte grazie a persone come George Lucas e Steven Spielberg.
Sto parlando di Christopher Nolan e la sua ultima magia ha titolo ‘Inception’.
Era da quel fatale maggio 1999, da Matrix, che non mi capitava di restare così rapito davanti a un film, così sospeso in un’incredula meraviglia per la perfezione e per la complessità alla quale stavo assistendo. La grandezza di ‘Inception’ va dalla definizione dei personaggi allo sviluppo della trama ma dove il genio di Nolan dà il suo meglio è nella metodica e implacabile definizione della ‘scienza onirica’, delle sue leggi, delle sue regole e persino della sua valenza religiosa.
Raffrontare ‘Inception’ con il capolavoro dei fratelli Wachowski viene spontaneo perché entrambi partono da un concetto semplice, in termini di definizione: niente è come sembra e, per esteso, la realtà che ti circonda non è la vera realtà.
Ma se in ‘Matrix’ il mondo per come lo conosciamo era una creazione delle macchine e lo scenario era un conflitto serrato tra l’uomo e il suo alter ego di silicio, in ‘Inception’ le cose sono molto più complesse.
In accordo con lo stile cerebrale e metodico di Nolan, tutto diventa concetto e metodo. L’uomo diventa il mistificatore, ma sempre l’uomo è la vittima dell’inganno.
Così scopriamo che, laddove c’erano impulsi elettrici e coltivazioni di esseri umani intrappolati in un’illusione, qui esiste una scienza con la quale è possibile imbrigliare i sogni, definirli grazie a leggi precise, smontarli e infine riassemblarli. Laddove l’Architetto era un’intelligenza quasi aliena nella sua meccanicità, qui l’architetto è un essere umano. Un creatore di mondi, un tessitore di inganni.
In ‘Inception’ tutto viene spostato a un livello inferiore sostituendo la sopravvivenza dell’uomo con interessi economici gestiti attraverso il furto. Una banalizzazione? A prima vista, forse. Ma la realtà della ‘scienza onirica’ e le sue implicazioni ben presto prendono il sopravvento sulle materiali necessità dei protagonisti e in gioco c’è ben più che la mera sopravvivenza dell’uomo: c’è la sua anima. Se le dinamiche iniziali ruotano intorno alla ricchezza per Saito e la fine della condizione di fuggiasco per Cobb ecco che poi tutto cambia.
Vediamo uomini e donne che cercano il paradiso rifugiandosi nei sogni, isolandosi in scantinati umidi e sporchi per nascondersi dalla vita. Vediamo lo stesso Cobb avvicinarsi in modo pericoloso a qualcosa che assomiglia alla creazione della vita: i suoi sogni, il suo subconscio, la proiezione della moglie che a tutti gli effetti vive di vita propria. L’uomo, attraverso la scienza dei sogni, si avvicina talmente tanto a Dio da scatenare, in ultima analisi, il più terribile dei dubbi: e se tutto quello che mi circonda fosse in realtà un sogno? Creare persone, creare città, plasmare il mondo. E’ tanto ambiguo il potere che si esercita attraverso i sogni da sconfinare anche nel mondo della veglia, da mettere in discussione la più elementare delle verità: io sono qui, sono sveglio, e questa è la mia vita.
La possibilità di inculcare un’idea nella mente di una persona attraverso il contatto con il suo subconscio diventa un corollario di poca importanza rispetto alla divinità dell’uomo, alla sua capacità di creare.
Nello stesso momento in cui si possono vestire i panni dell’Architetto in un modo così estremo, nel momento in cui è possibile trasformare la durata di un sogno in quella di una vita, ecco che le idee diventano fragili e manipolabili, esattamente come la realtà di ‘Inception’.
Cobb si trasforma in una divinità che ha nella sua stessa natura la sua più grande debolezza. A poco a poco anche nella nostra mente si fanno largo le implicazioni che porteranno sua moglie all’inevitabile follia: e se tutto fosse un sogno? Innestare la volontà di smembrare un impero commerciale non è nulla se paragonato al fatto che sia possibile farlo. E la possibilità dell’innesto impallidisce se paragonata al perfetto inganno che il dio-uomo, nella scienza onirica, può ordine.
Nolan, come sempre, inizia raccontandoci una storia e finisce con il trasformare ciò che vediamo in un complesso affresco il cui scopo è ridisegnare la realtà. Non ci suggerisce come il mondo cambierà dopo ciò che Cobb è riuscito a fare semplicemente perché il mondo potrebbe non essere più lo stesso.
Il finale è simbolicamente perfetto: la trottola non è quella di Cobb. La trottola è la nostra percezione della realtà e adesso, in un mondo di divinità, non possiamo sapere se smetterà mai di girare.