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[Recensioni Film] – ‘Frankenstein’ di Bernard Rose

Tempo di lettura: 4 minuti

‘Io vendicherò le mie offese; se non posso ispirare amore, io causerò paura, e soprattutto verso di te, il mio primo nemico, perché mio creatore, giuro un odio inestinguibile’
Frankenstein, di Mary Shelley

VOTO:★★★½☆

C’è un primo ostacolo, un peccato originale da affrontare prima di potersi dedicare al ‘Frankenstein’ di Bernard Rose. Un attrito concettuale che si riassume in una singola domanda: dopo James Whale, dopo Kenneth Branagh e dopo Stuart Beattie c’era davvero bisogno di un altro Frankestein? Se si approccia a questo dilemma con uno spirito privo di preconcetti, la risposta non può essere che nelle mani del regista.
E Rose dal canto suo, forte del Candyman che lo ha reso famoso, ci propone una rivisitazione in chiave moderna del romanzo gotico di Mary Shelley. Lo fa attingendo dalla sua esperienza di cineasta versatile che ha esplorato generi molto diversi tra loro.
In una Los Angeles contemporanea Viktor Frankenstein (un Danny Huston come sempre molto centrato) e la moglie Elizabeth (Carrie-Anne Moss) sono alla ricerca del segreto della vita. Nelle viscere dei loro laboratori creano, con una evolutissima stampante 3D, Adam (Xavier Samuel). La prima parte della pellicola si dedica all’educazione del neonato costrutto di carne: è come un bambino, deve essere formato.
Poi qualcosa nella programmazione genetica di Adam va storto e questi inizia a sviluppare crescite tumorali incontrollate in tutto il corpo. Viktor ed Elizabeth tentano di porre fine alla sua vita ma Adam scappa. Libero nel mondo, mentalmente poco più di un neonato ma con una grande forza fisica e del tutto incapace di distinguere il bene dal male, ripercorrerà, citandole in più punti, le gesta del suo predecessore ottocentesco e del film di Whale. Dalla bambina bionda che gioca sull’acqua, passando dalla folla inferocita che lincia il mostro e arrivando al mendicante cieco (Tony ‘Candyman’ Todd) che si prende cura di Adam.
Rose è molto sincero: il suo Frankenstein è un omaggio a Mary Shelley focalizzato però sul punto di vista del ‘Mostro’. Xavier Samuel se ne fa carico svolgendo un lavoro egregio, mettendo in scena una creatura sofferente e infantile i cui accurati monologhi tratti dalle pagine della Shelley creano una forte contrapposizione con la quasi totale incapacità del mostro di parlare. Samuel è bravo e soprattutto nelle prima parte del film dimostra di aver capito e apprezzato il progetto del regista adeguandosi con disinvoltura all’anima splatter del film. In più la scelta di un attore esile soprattutto se raffrontato con Todd e Huston crea un bel contrasto, rafforzando la potenza sovraumana che Adam possiede.
Il passo di lato più interessante nella sua reinterpretazione del mito letterario Rose lo fa nella figura di Viktor. Cinico e distaccato, è figlio dei tempi moderni: la ricerca della vita grazie a un’asettica stampante 3D sembra prosciugare il dottor Frankenstein da ogni riflessione morale propria del suo alter ego letterario. Come se il progredire di una scienza più completa e meno filosofica, lontana dall’alchimia e dalla natura, allonanasse l’uomo dalla sua parte più divinia, più amorevole. Generare la vita come fosse un comune oggetto, in uno scantinato umido seppellito nelle viscere della propria casa, esilia il concetto di amore dall’atto della creazione.
Elizabeth all’opposto è il personaggio più discontinuo e meno interessante della vicenda: prima affettuosa e coinvolta finisce con il rinnegare Adam punendolo con un gelido e surreale rifiuto materno. Per poi cambiare di nuovo idea, pentendosi, nel drammatico ma troppo sbrigativo epilogo della storia.
Ed è proprio la discontinuità il principale difetto di questo ‘Frankenstein’, il peccato che ne rallenta la corsa. Qualche scorciatoia e situazioni risolte troppo in fretta finiscono con il banalizzare certi blocchi narrativi. In più la componente gore che Rose ci mostra con coraggio durante la fuga di Adam è poi quasi del tutto accontonata e l’atteso faccia a faccia tra il mostro e i suoi creatori scivola troppo veloce, deprivato di quel pathos che invece fa da colonna sonora a buona parte del film.
Rispondendo alla domanda di apertura, sì, Frankenstein può ancora essere portato sul grande schermo con successo. Molto del merito va alla geniale intuizione di Mary Shelley che è riuscita a concepire una storia senza tempo. Ma senza un timone saldo come quello che Rose è riuscito a tenere, ci saremmo trovati davanti a una cosa priva di anima. Proprio come ‘I, Frankenstein’ di Aaron Eckart.
di Maico Morellini
Questo articolo è stato pubblicato su Nocturno Cinema

Per chi se la fosse persa:
Recensione di Frankenstein, di Mary Shelley

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