Questa recensione è stata pubblicata su Nocturno 119
VOTO:
Era il 1977 quando l’allora illuminato genio dell’horror Wes Craves decise di portare sul grande schermo la leggenda di Sawney Bean, nella sua versione americana. Ne ‘Le colline hanno gli occhi’ (Hills have eyes, 1977) un gruppo di selvaggi, probabilmente mutati a causa dei test nucleari fatti nelle loro amate grotte, tentava di massacrare un gruppo di incauti vacanzieri. Tralasciando i talentuosi remake del 2006 e del 2007, il tema della mutazione catalizzata da radiazioni nucleari non è nuovo al cinema horror ed è anche alla base di ‘Chernobyl Diaries’, di Bradley Parker.
Qui il consolidato gruppo di giovani ragazzi americani, in questo caso turisti ormai annoiati dalle normali mete di villeggiatura, decide di intraprendere un’avventurosa vacanza nel cuore dell’europa dell’Est, presso il villaggio ucraino di Pripyat. Non si tratta di una minacciosa città slovacca, come Eli Roth ci aveva abituato nei suoi Hostel (2005-2007), ma di un centro urbano nato negli anni settanta per ospitare lavoratori, tecnici e impiegati nella vicinissima centrale nucleare di Chernobyl.
Quale migliore meta per ragazzi in cerca di avventura? Un enorme villaggio fantasma, evacuato in fretta e furia, completamente deserto e riconquistato da una selvaggia (e mutata) natura. Ai quattro turisti americani si unirà un’altra coppia per l’escursione, tutti guidati dall’esperto ex-soldato autoctono Uri. Eludere i controlli militari consente al gruppo di addentrarsi con un furgoncino tra le surreali e temporalmente congelate strade di Pripyat fino a quando un guasto per niente casuale al mezzo li costringerà a trascorrere la notte, e non solo, nella città fantasma.
Visti i presupposti è facile intuire che in realtà il paese non è solamente abitato da cani randagi e animali selvatici e purtroppo tutta l’originalità della pellicola, che non è tanta, si ferma qui. L’interessante ipotesi di utilizzare il disastro di Chernobyl come set e motore mutante della trama per un film, cede il passo all’inesperienza di regista e sceneggiatori con il risultato di non prendere mai una direzione precisa. Ci sono piccole citazioni sparse per tutta la pellicola, alcune non prettamente cinematografiche (che l’improbabile comparsa di un orso tra gli animali selvaggi sia un riferimento a Putin il suo orso polare?), altre più legate al genere horror. Il fatto che a impugnare la penna dello sceneggiatore ci sia Oren Peli (‘Paranormal Activity’ 2007) fa capire il legame con fotocamere e video digitali come strumento rivelatore. Tutto questo fino al finale, purtroppo per niente originale, che in qualche modo intende omaggiare Romero de ‘La notte del morti viventi’, 1968.
Insomma, tante idee ma non abbastanza chiare da sdoganare ‘Chernobyl Diaries’ dall’ennesimo horror survival a tema mutante.
Per i curiosi, le riprese sono state fatte in Serbia e Ungheria e non in Ucraina, ma sembra che a Pripyat, pur andando contro l’esercito e la legge, alcuni vecchi residenti della città si siano ristabiliti tra i palazzi disabitati. Nutrendosi dei frutti della terra e bevendo acqua contaminata.
di Maico Morellini