– Aiuto.
Non sei sicuro di aver sentito davvero quella parola. Non ne sei sicuro perché tra il rumore di una macchina che ti sfila accanto, quello dei ragazzi che giocano a calcio nel campetto dall’altro lato della strada e il tuo stesso respiro, la corsa nel quartiere è una cacofonica sconnessa di rumori.
– Aiuto.
No. Non ti sei sbagliato. Rallenti il passo, il piede sinistro che ricomincia a fare male. Scarpe nuove vogliono sempre dire vesciche, soprattutto per chi come te è un runner della domenica.
Però, vesciche a parte, da dove vengono quelle tre sillabe così fuori posto?
Rallenti ancora, il fiato che scende di qualche ottava. Poi ti guardi intorno frugando oltre le siepi spelacchiate, le staccionate in ferro e i bassi muretti delle case del quartiere.
– A-iu-to.
Tre è il numero perfetto, dicono. E alla terza volta che le senti, capisci da dove vengono quelle sillabe.
C’è una donna anziana, seduta sotto il portico, oltre il giardino alla tua sinistra. Quasi ti fermi. Il cuore rimbalza tra la cassa toracica, le orecchie e persino tra le scarpe nuove, tanto da coprire il tuo respiro. Magra, i capelli bianchi spettinati, le mani in grembo, un vestito in sintetico tra il turchese e il giallo. Ti fissa ma nel suo linguaggio del corpo niente, ma proprio niente, sembra in armonia con la parola che hai sentito poco prima.
– Aiu-to – dice ancora. È poco più di un sussurro ma in qualche modo è come se quella richiesta ti fosse bisbigliata all’orecchio, tanto la senti vicina. Il collo si arriccia, scosso da brividi che non sono di caldo. E non è nemmeno sudore.
Ti fermi.
Incroci lo sguardo della vecchia e tra le rughe della fronte maculata e le guance secche incroci due occhi severi. Poi esce una donna enorme, vestita di rosso. Ha uno smartphone in mano e una tazza nell’altra. Si avvicina alla signora anziana, la fa una carezza sulla testa senza mai staccare gli occhi dallo schermo e appoggia la tazza sul tavolino.
– Aiuto – sussurra ancora. La situazione è surreale ma anche una mente che si spegne piano piano lo è. Il donnone ride di gusto mentre lo smartphone pigola qualcosa in russo, poi si siede all’altro capo del tavolo e continua a borbottare allegria come una caffettiera.
Esiti qualche istante. Sai che gli anziani, a volte, si sentono in trappola senza esserlo. Sai che pescano a casaccio tra passato e presente e quell’ “aiuto” sbriciolato tra il portico e la strada sembra proprio uno di quei casi.
Esiti ancora un attimo ma il donnone non si cura di te mentre la vecchia continua a guardarti. Neutra ma con quella parola ancora sulle labbra.
Riprendi la corsa cercando un ritmo più veloce per scrollarti di dosso quel disagio.
– Aiuto.
Nemmeno venti metri. Di nuovo quella parola. Ma questa volta è una voce maschile ad averla pronunciata e arriva dall’altro lato della strada. Una finestra socchiusa, la sindone di un vecchio appiccicata al vetro come un’ombra incisa dall’abitudine.
– Aiuto,
Ritrovi lo stesso sguardo che hai visto solo un attimo prima. Il cuore accelera, ma non è per lo sforzo. Le scarpe scricchiolano e quasi non senti la stilettate di dolore della vescica che esplode.
– Aiuto.
La casa successiva. Ciò che resta di una donna annodata a una sedia a rotelle. Coperte alla rinfusa sulle gambe, la testa piegata in un angolo sgraziato. E quegli occhi. Che ti fissano.
Ti fermi di nuovo. Lanci lo sguardo avanti, poi indietro. Intorno. Tutte quelle case. Tutte quelle persone anziane. Ti sembra di vederle come fossero arredi urbani dimenticati.
– Aiuto.
– Aiuto.
Si aggiungono altre voci e a ogni richiesta quella parola ti scava nella testa tanto da fari perdere l’equilibrio. Tanto da costringerti addosso a un palo della luce, la faccia che screpola il cemento.
“Adio pupa tioamato” leggi senza leggere davvero lo scarabocchio sul palo. Ne avresti riso, ma non adesso. Adesso quella parola – aiuto – ripetuta all’infinito lungo la via ti sta portando via tutto.
– Aiuto.
– Aiuto.
– Aiuto.
Altre voci. Sai, senza vederle, che vengono dalle case successive. E da quelle precedenti. E dalle vie accanto. Menti fratturate perse tra ciò che è stato e ciò che vorrebbero fosse.
Abbracci il palo ma poi scivoli, ruvido, sull’asfalto.
E la senti. Senti la pressione di centinaia di anni accatastati uno sull’altro. Senti la pressione di vite che hanno visto vite e che hanno generato altre vite. Vite in trappola. Dimenticate. Severe. E furiose.
– A-I-U-T-O – l’eco infinito di quella parola caricato col peso di esperienze vissute e ora in trappola. L’eco di un dolore che è diventato disperazione, della disperazione che è diventata rabbia e di una rabbia che alla fine, un anno dopo l’altro, completa la sua metamorfosi diventando odio.
L’odio di una donna anziana. Di un via. Di un quartiere. Di un’intera città. L’odio di chi ha attraversato il tempo, le rivoluzioni, i cambiamenti. L’odio di chi non vuole chiedere aiuto, non lo hai mai fatto, ma è costretto a farlo.
È troppo. Senti la forza e il potere di tutte queste menti secolari addosso. Ti comprime il cuore, ti schiaccia i polmoni, frattura la tua realtà fatta di jogging, di social network, di serie TV, partite di tennis e bonifici a metà del mese.
Sei a terra. Annaspi e boccheggi mentre uno dopo l’altro i fili che tengono insieme ciò che eri e ciò che sei vengono recisi dalle cinque lettere affilate. Ti perdi. Tra passato e presente. Apri la bocca mentre un filo di bava misto a sudore scivola dal labbro schiacciato e terra finendo per evaporare sull’asfalto.
– Aiuto – dici.
Ed è la sola cosa che dirai da qui a ciò che resta della tua eternità.
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