Ebbene sono passate appena due settimane da quando mi ero lanciato in sperticate riflessioni sul futuro della Saga delle Saghe, ed ecco che parti dei miei ragionamenti trovano conferma grazie a una smentita. Il vulcanico (e vulcaniano) J.J. Abrams infatti, dopo aver escluso la possibilità di trovarsi a dirigere il prossimo Star Wars proprio per la sua etica da trekker e la voglia di restare un semplice fan di Guerre Stellari, adesso fa marcia indietro. Da un giorno e mezzo, infatti, impazza nell'etere una nuova profezia: il creatore di Lost dirigerà Episodio VII.
'Aliens from space' pubblicato nel 1958 sotto lo pseudonimo di David Osborne per mano quel geniaccio di Robert Silverberg, approdò sul mercato italiano nel 1961 (collana Galassia della casa Editrice La Tribuna) con il titolo 'Stranieri dallo spazio'. Perciò parliamo di un romanzo scritto undici anni prima di quel fatale 20 luglio del 1969, data dell'allunaggio americano, e due anni prima di quel 12 aprile 1961 giorno in cui Jurij Gagarin divenne il primo uomo in orbita. Da un punto di vista dell'immaginario dell'epoca, perciò, parliamo di un romanzo assolutamente vergine. Cioè con ancora un vastissimo mondo da esplorare, privo di preconcetti dettati dal contatto diretto con l'uomo e lo spazio e privo di ogni ricorrenza scientifica troppo invasiva. Di cosa parla il romanzo?
Dietro a questo titolo e ai suoi legami con la realtà fumettistica degli X-Men di cui parlerò tra poco, si nascondono molte e molte cose. La prima di tutte è, per citare Star Wars, la chiusura del cerchio. In che senso? Nell'unico senso possibile: quello del regista. Mr. 'I soliti sospetti' Bryan Singer, che aveva fatto un lavoro magistrale girando i primi due X-Men (e che aveva abbandonato il terzo capitolo per gettarsi a capofitto sul fallimento di Superman Returns (2006)), si ricongiunge alla sua creatura. Dopo l'X-Men: First Class di Matthew Vaughn (2011), che aveva ridato nuovissima linfa a una serie incamminata verso un nemmeno tanto lento declino, ecco che il sequele del prequel (ditelo veloce, se riuscite) torna nelle mani dell'ex bambino prodigio. Cosa dobbiamo aspettarci?
E mentre la Disney colleziona rifiuti più o meno espliciti da parte di noti registi nel tentativo di trovare qualcuno che dia vita alla Prossima Trilogia (al momento si è aggiunto a J.J. Abrahams, nel rifiuto, anche Guillermo Del Toro), noi appassionati cosa facciamo? Quello che ci riesce meglio, ovvio, speculiamo, immaginiamo, ci preoccupiamo e non vediamo l'ora di rispolverare le spade laser che dal 2005 non hanno più visto una sala cinematografica. Le cose, di sicuro, sono destinate a cambiare.
Paul Thomas Anderson non è uno di quei registi da una pellicola all'anno (da non confondersi con Paul W.S. Anderson che si dedica a generi leggermente differenti, vedi Resident Evil). E' un regista moltro introspettivo, capace di attingere a pieni mani dall'inesauribile pozzo emotivo che è l'animo umano, e in grado di confezionare un veri e propri capolavori tra i quali ne ricordo uno sopra tutti: Magnolia (1999). Anche per questo che non è così prolifico: ogni volta che si mette dietro la macchina da presa, vista la maniacale perfezione che ne caratterizza il lavoro, deve per forza uscirne prosciugato.
Per arrivare preparato a uno degli appuntamenti cinematografici più attesi dell'anno, avevo riletto poco tempo fa 'Lo Hobbit' (in una versione con tanto di domande di comprensione, non si sa mai) riscoprendolo molto più ricco di avvenimenti di quanto ricordassi. Perciò mi accompagnava in sala, memore delle capacità di adattamento mostrate da Jackson ne 'Il Signore degli Anelli', la consapevolezza che in quanto ad avvenimenti, 'Lo Hobbit' è denso quanto una zuppa di lenticchie.
Era il 1978 quando Richard Donner portò sul grande schermo il primo e il più grande di tutti i supereroi: Superman. Lo fece reclutando il perfetto e compianto Christopher Reeve per il ruolo di Kal-el e quel geniaccio di Gene Hackman per l'arcinemico Lex Luthor.
La mia prima lettura de 'Lo Hobbit' (1937, pubblicato però in Italia nel 1973) risale ai gloriosi tempi delle scuole medie, per merito di una professoressa di italiano decisamente illuminata. Avevo ricordi piuttosto confusi in merito e in previsione dell'imminente uscita cinematografica, ho deciso di rileggerlo. E la cosa mi ha richiesto poco più di un paio di giorni.
Da sempre (e per sempre) si discute (e si discuterà) del rapporto tra letteratura e cinema. O meglio, tra narrazione letteraria e relativa trasposizione cinematografica. E più o meno dal 1903, con il primo cortometraggio muto tratto dal 'Don Chischiotte' di Cervantes, che il cinema attinge per le sue produzioni a realtà letterarie più o meno di successo. E questo è terreno consolidato con le solite ombre (tante) e le solite luci (un po' meno): affidabilità della trasposizione in termini di trama, fedeltà ai personaggi e capacità di una sintesi coerente (difficilmente salvo rare eccezioni, e 'Lo Hobbit' potrebbe essere una di queste, vedere un film richiede più tempo che leggere il corrispettivo romanzo).
Quando si sfogliano le prime pagine di un romanzo (breve) scritto dall'autore e sceneggiatore de 'L'Esorcista, (1973)' l'aspettativa non può essere che due o tre gradini più alta del normale. In più, quando le prime pagine non convincono, scatta quel meccanismo di 'ricerca della rivalsa' per cui ci si aspetta, da un momento all'altro, che il romanzo decolli. E se questo non dovesse succedere?
Cosa succede quando un regista europeo (che ha già dimostrato una discreta capacità di sceneggiatore) attraversa l'oceano in cerca di talenti e se ne torna a casa con Robert De Niro, Sigourney Weaver e quel demonio dagli occhi di ghiaccio di Cillian Murphy? Non è regola generale, ma spesso e volentieri il risultato merita almeno una bella menzione.