Questa recensione/analisi è stata pubblicata integralmente sul numero 18 del Living Force, fanzine del Fan Club Yavin 4.
La mia esperienza di lettore rispetto al “maghetto quattrocchi” è stata preceduta da un’epidermica irritazione scaturita, nella sua forma più virulenta, in reazione allo scoppio “popolare” dell’amore per J. K. Rowling e per le sue creature di carta stampata. Da amante secolare del Fantasy guardavo con estremo sospetto al plebiscito urlante che inneggiava alla ventata di novità portata dalla scrittrice inglese: nei libri di Harry Potter non vedevo nulla di nuovo, rispetto all’enorme scibile Fantastico esistente; non percepivo uno sforzo letterario (da parte dell’autrice) che giustificasse un entusiasmo così acceso. Quando poi i miei occhi incrociarono uno degli antecedenti “Books of Magic” (collana di fumetti magici Vertigo/DC creata nel 1990-1991 dall’immenso Neil Gaiman) dove il protagonista era un ignaro adolescente inglese occhialuto e con cicatrice che scopriva di essere mago, il mio “prurito concettuale” si fece vera e propria “orticaria da Harry Potter”.
1 e 2: “La pietra filosofale” e “La camera dei segreti”
Con quello spirito affrontai in un recente passato “La Pietra Filosofale” (pubblicato da JKR nel 1997) e “La Camera dei Segreti” (anno 1998). In quei primi due libri trovai solo la conferma del calderone di cultura Fantasy, nel quale bolliva un brodo i cui ingredienti provenivano da una vasta mitologia già esistente e dettagliata. Poche innovazioni, una sopra tutte incarnata dal Quidditch, e un’aria fanciullesca al limite del sopportabile – sempre dal mio scettico punto di vista, ovvio. Il blocco del lettore fu inevitabile: mai avrei ripreso in mano un libro di Harry Potter.
O così pensavo.
La crescita qualitativa delle pellicole che ho continuato a seguire (il terzo film del messicano Alfonso Cuaròn fu una svolta cinematografica per la saga … ancora non sapevo che lo era stata anche per i libri) e soprattutto l’opinione e le discussioni con potteriani convinti (molti dei quali all’interno di Yavin 4) iniziarono a erodere il mio voto del silenzio.
3: “Il prigionero di Azkaban”
A fine settembre 2007 recuperai “Il prigioniero di Azkaban” (anno 1999).
Sorpresa! Lo stile di scrittura era cambiato. Era meno approssimativo, meno stereotipato. La trama, per quanto abbastanza lineare, procedeva bene, molto bene. Da un lato la visione del film mi aveva tolto quasi tutti i colpi di scena, per cui leggevo con smaliziata consapevolezza molti degli indizi sparsi tra le pagine. Un libro non più fanciullesco, senza eccessi di giocosità e frivolezza a tutti i costi (caratteristiche che avevo mal digerito nei due predecessori… anzi, che mi erano proprio indigeste). Un bel libro. O quasi.
Il Giratempo, stratagemma degno del secondo episodio (del quale non perdonerò mai l’esistenza di Aragog e il suo inserimento a forza nella trama), precipitava il finale in qualcosa che nulla aveva a che vedere con l’armonia delle pagine precedenti. Sembrava un’eredità scomoda che doveva essere saldata. Utile ai fini della trama, ma molto spuntata e non allineata all’atmosfera della narrazione. Insomma, un’idea (se mi si passa il paragone con Star Wars) “alla Midi-chlorian”: utilizzata per spiegare un paio di cose e poi dimenticata e distrutta perché troppo sbilanciante. A tutti gli effetti uno stratagemma scomodo; ma, nel complesso, che non toglie valore alla reale struttura del libro.
Poco meno di un mese dopo eccomi impegnato ne “Il Calice di Fuoco” (anno 2000).
4: “Il calice di fuoco”
L’approccio al libro era da un lato scettico e dall’altro con grandi aspettative. Scettico perché derivava anche da una pellicola non proprio riuscita, nella quale l’intero Torneo Tremaghi scricchiolava e dove il ritorno di Voi-Sapete-Chi, a mio avviso, non era stato per niente epico come doveva. Le grandi aspettative invece venivano dai confronti con lettori più avanti di me, che avevano demolito una dopo l’altra le mie perplessità di trama rispondendo per le rime e citando i passaggi del libro in cui tutte venivano spiegate in dettaglio.
Stilisticamente trovai conferma di un modo di scrivere con molti meno fronzoli fanciulleschi e dove tutto era diventato essenziale e pratico. Il lavoro di ambientazione, minuzioso ma anche un po’ sforzato dei libri precedenti, stava dando i suoi frutti. Le Cioccorane e la Burrobirra erano incastrate in una trama più articolata e matura; in un contesto ben più ampio che le relegava a elementi di scena anziché vere e proprie componenti base – come invece era stato nei primi due libri. Nel Calice finalmente si andava ben oltre Hogwarts. Il Ministero della Magia, i giochi di potere, la presenza di altre scuole, il passato in cui Lord Voldemort aveva seminato un terrore finalmente più concreto. Tutto iniziava a trasparire tra una lezione e l’altra. E in modo talmente scorrevole, così ben inserito nell’ambito scolastico, da non lasciare spazio a dubbi.
Unico neo (personalissimo), tutto il discorso C.R.E.P.A.: probabilmente un modo per ripescare Dobby, magari uno strumento per alleggerire la trama… un altro piccolo retaggio della rilassatezza tematica dei primi libri. Molto meno invasivo del Giratempo comunque, e capace di costruire anche bei momenti.
Neo che però scompare davanti al finale. Il confronto tra i buoni Cornelius Caramell vs. Albus Silente raccoglie, in poche pagine, tutta l’essenza di quello che il cattivo Dark Lord ha fatto e di come ha cambiato il mondo dei maghi. I Dissennatori, prima alleati del Male, ora sono al servizio del Ministero che sembra non voler imparare nulla dal passato ma cancellarlo e, anzi, dimostrare che ora tutto è sotto controllo. La negazione di una realtà scomoda in favore di una verità relativa, incentrata sul ridicolizzare con i mezzi di informazione chi va contro il sistema, è un impegno narrativo molto coraggioso e già reso perfettamente.
5: “L’ordine della fenice”
La rivelazione per me è arrivata con “L’Ordine della Fenice” (anno 2003).
Sulle capacità di costruzione di trame mi ero già ravveduto dopo il terzo e il quarto volume. Ma sullo stile narrativo, per quanto fosse piacevolmente scorrevole, non mi sentivo di essere entusiasta. Era semplice e scolastico (nel senso più positivo del termine, la semplicità secondo me va spesso premiata), pur giudicandolo con la riserva della traduzione. Nell’Ordine anche questo aspetto subisce forti variazioni: la scrittura cambia. JKR è finalmente a suo agio, sembra che fino al quinto volume si sia trattenuta ma adesso, al pari della rabbia di Harry, sgorga dalla sua penna la reale capacità letteraria. Che è notevole. Concetti e sensazioni aumentano di peso e di intensità. Le descrizioni interagiscono con gli stati d’animo dei personaggi.
Viene allo scoperto anche il lato più oscuro della Rowling, represso fino a quel momento da, me ne sono convinto, esigenze narrative. Kreacher e il numero 12 di Grimmauld Place sono malvagi. Il primo diviene, per la natura stessa della sua razza, essenza vivente della casa e della famiglia che ha servito tanto a lungo. E’ il riflesso dell’animo di coloro che serviva e ci trasmette, più di ogni altra descrizione, la realtà dei Black. E questo è genuino di un Horror sofisticato: la malvagità che contamina gli esseri animati e le cose inanimate, trasformando tutto a sua immagine e somiglianza.
L’intero libro è destinato a raccontare cose. Gli eventi si susseguono tra le motivazioni dei personaggi, la vita a Hogwarts, di nuovo la violentissima ghigliottina della censura (incarnata da un personaggio tanto odioso quanto affascinante: Dolores Umbridge) che il Ministero intende impiegare per controllare l’incontrollabile.
Il punto debole, ma si tratta di una debolezza veniale, è il motore silenzioso (o dovrei dire silente?) che spinge gli eventi: la Profezia. Un mistero, un’arma, una trappola. Più di tutto una scusa per raccontare della frustrazione di Harry e di Sirius Black; per dimostrare l’inedita debolezza di Silente, il Demiurgo che ha tirato le fila dei buoni e, in parte, che ha guidato le azioni dello stesso Voldemort… che è riuscito a portare tutti dove lui voleva (seppure in modo diverso rispetto a come lui intendeva), ma che ha comunque fallito nel tentativo di fermare l’Oscuro Signore. La profezia perciò è un mezzo letterario che risente di una certa debolezza formale. Ma se è vero che il fine giustifica i mezzi, questo meccanismo è giustificato dai risultati che ottiene.
L’Ordine nasconde anche piccole sorprese che trovano lo spazio di mezza pagina ma che hanno un valore immenso. Il confronto tra il fantasma Nick Quasi-Senza-Testa e Harry sul tema della morte è semplice ma profondo. Quasi testualmente: “I maghi che hanno paura della morte tornano come fantasmi”. Lo spettro di Grifondoro, per la prima volta, parla di come è diventato ciò che è.
L’unico reale appuntamento al quale JKR non riesce ad arrivare in tempo (ma in ritardo di una manciata di minuti al massimo) è quello con l’Epica. Il duello tra Silente e Voldemort al Ministero è meno potente rispetto a quanto visto al cinema. Lo scambio di battute tra il Dark Lord e il suo vecchio insegnante è poco intenso. La possessione di Harry ad opera di Voldemort troppo rapida. Avevo voglia di qualcosa di grandioso che non è arrivato. Una sensazione però lavata via immediatamente dal monologo di Silente: un lungo momento, quello tra Harry e il Preside, dove le spiegazioni si mescolano alle umane debolezze di un personaggio fino a quel momento infallibile. Un aprirsi al proprio allievo dopo il quale, già lo capiamo, nulla sarà più come prima.
6: “Il Principe Mezzosangue”
Così tra Natale 2007 e Capodanno 2008 sono giunto a “Il Principe Mezzosangue” (anno 2005). Il primo libro potteriano che ho letto senza aver visto prima il relativo film.
La metamorfosi letteraria di JKR è praticamente completa. Già nelle prime pagine si percepisce che il cambiamento messo in moto nell’Ordine ha reso il bruco HP una farfalla. Molti degli aggettivi usati per descrivere cose comuni virano al nero. Il mondo sembra farsi piccolo intorno alla stretta di Voldemort e tutto, sia in modo dichiarato con veri e propri eventi di trama sia con il sottile metodo dell’aggettivazione, diventa oscuro: finestre a ghigliottina; il clima che, seppure come sempre freddo, appare più cattivo; la via che conduce alla scuola per la prima volta percorsa di notte, al buio. Le morti, le sparizioni, il Male che cresce filtra attraverso le mura di Hogwarts. Come reagiscono i protagonisti? Cosa succede a tre ragazzi prossimi alla maggiore età? Si aggrappano a sentimenti forti quanto la malvagità montante (quelli con i quali Tonks e Remus Lupin decideranno di commemorare Silente). Sentimenti che avevano ignorato perché protetti dal clima sereno della scuola, ma che adesso si rivelano nella loro essenziale funzione: farli crescere e proteggerli da un Male che non conosce l’amore.
La trama si complica. Si intrecciano diversi binari di narrazione e l’ambiguità si afferma sin dalle prime pagine per restare di contorno fino al finale. La struttura stessa del romanzo è, lo dico senza esagerare, geniale. Per gli interi tre libri precedenti abbiamo percepito il crescendo del Male (mostrato attraverso i suoi alleati: i Dissennatori, di cui Silente mai si è fidato) per poi scatenarsi nel primo vero duello magico. Adesso l’oscurità permea ogni cosa (“Vediamo se è morto qualcuno che conosciamo” dice Ron Weasley, con naturalezza disarmante, leggendo la Gazzetta del Profeta), è divenuta parte integrante del mondo magico e di quello non magico: persino il clima ne risente.
E noi, accompagnati dal più strenuo e grande oppositore del Male, viaggiamo nel passato alla ricerca di ciò che è stato. Di come è nato. Vediamo come lo stesso Silente ha contribuito, se possibile e senza apparente intenzione, alla nascita di Voldemort. Scopriamo la determinazione del vecchio mago nel trasmettere a Harry ciò che sa. Ciò che è necessario. Ciò che deve e che vuole sia divulgato dell’allora Tom Orvoloson Riddle.
I personaggi subiscono mutamenti straordinari. Il Male catalizza mille reazioni, tutte differenti ma tutte indirizzate nel perseguire uno scopo. Se Harry, Ron e Hermione Granger reagiscono amando, cercando o scoprendo l’amore; Draco Malfoy reagisce in un modo del tutto inaspettato. Abbandona l’inutile supponenza che lo aveva caratterizzato e anche lui, catalizzato nelle sue reazioni, cresce fino a divenire pericoloso e astuto come non è mai stato; come quasi nessuno, lo ripetono per tutto il libro, credeva che potesse essere. Il Male cambia le persone: anche questo è un concetto Horror molto sottile e narrativamente pericoloso se non usato con cura.
Non per la Rowling. Perché dal Male, dalla catalisi drammatica di intenzioni, realtà ed eventi, scaturisce un Severus Piton immenso.
Personaggio nei primi due libri relegato al ruolo di insegnante cattivo, quasi uno stereotipo sul quale dirigere le antipatie degli studenti, che lievita. Con lenta costanza. Rivelando intrecci “di sangue” con Harry: l’odio per il padre James Potter e per tutti quelli diventati importanti agli occhi del giovane – Sirius, Lupin, addirittura Tonks. Che ci svela il suo passato di dannato Mangiamorte e di redenta, eroica spia. Capace di nascondere il proprio pensiero al più possente Legilimens esistente; capace di guadagnarsi la cieca fiducia del più grande Stregone del mondo… Piton, che a tutti gli effetti diventa una terza colonna. La capacità di JKR di fargli compiere azioni terribili ma al tempo stesso di lasciare nel lettore il dubbio che comunque non tutto è semplicemente come sembra può voler dire solo una cosa: che è riuscita, tra scope e palle volanti, tra una passeggiata nel passato e una profezia misteriosa, a costruire un personaggio enorme. Ed è proprio attraverso Piton che l’Epica di cui parlavo prende finalmente vita.
Il finale con la sua rivelazione è semplicemente perfetto e nella sua perfezione mantiene molti lati in ombra. Silente, per la prima volta in sei libri, sembra perdere il controllo degli eventi; per la prima volta in sei libri, nel momento di massima tensione fa una cosa che rende quell’istante ancora più terribile: supplica. “Severus… ti prego…”. Un’eco che è difficile spegnere. Tre parole che si immolano nella furente rabbia di un antagonista del tutto sfrenato nella sua enorme potenza magica e nella sua incredibile ambiguità.
Unico piccolissimo neo, ma più in potenza, gli Horcrux. La Cerca intesa come il dover recuperare oggetti magici al fine di ottenere la sconfitta del malvagio è qualcosa di un po’ superato e che, in un tale crescendo di stile e contenuti, non mi ha convinto.
La furia che aveva consumato Harry fin dall’Ordine lascia il posto a ciò che l’eroe è diventato (come Silente consiglia): “Anche se Hogwarts riaprisse… io non tornerò”. E, come la mano di Sam che stringe quella di Frodo sull’Anduin segna la fine di Sauron, così: “Noi ci saremo, Harry”.
7: “I Doni della Morte”
All’alba del 2008 e della pubblicazione italiana dell’ultimo volume ero ormai diventato un potteriano convintissimo, che aspettava di ricevere, un po’ dopo Natale, il settimo regalo. “I Doni della Morte” (anno 2007)… l’ho divorato in tre giorni.
Uno dei più grandi rischi che gli autori di Fantasy corrono quando si impegnano in saghe di una certa lunghezza (per intenderci, almeno una trilogia) è quello di divenire autoreferenziali finendo con l’innamorarsi dell’ambientazione più che della storia. Non è il caso di JKR. Non lo è mai stato. Stilisticamente l’autrice mantiene quell’efficacia affinata nell’Ordine e consolidata nel Principe: un linguaggio semplice, lineare e rapido. Adatto a un mondo piombato nell’oscurità e dove, ce ne rendiamo subito conto, gli eroi sono braccati dai nemici. Questa è la prima variazione di clima: Harry e l’Ordine della Fenice sono fuggiaschi. Voldemort e i Mangiamorte, come l’implacabile Impero di Star Wars, li inseguono senza sosta. I cattivi non sono più alla ricerca di qualcosa o impegnati in qualche piano collaterale: la Profezia è infranta; Silente, l’unico che ancora frenava l’Oscuro Signore, è stato ucciso. Ora Potter deve morire. Mentre vedo crollare a pezzi il mondo magico… Hogwarts è presa; i nascondigli dell’Ordine, uno dopo l’altro, vengono scovati e distrutti; “Il Ministero è caduto”, annuncia il Patronus di Kingsley Shacklebolt. Capisco che, un passo alla volta, il limite è stato oltrepassato. Si vaga prima per una pericolosa Londra, poi per una triste Inghilterra.
Tornano in scena, anche se in realtà non sono mai spariti, gli Horcrux, e presto mi ravvedo sul loro inserimento. Non sono solamente oggetti da cercare, raccogliere e distruggere per sconfiggere il nemico. Diventano, sempre di più, icona indelebile del Male stesso. Voldemort, nella loro creazione, trasforma la sua anima, l’unica cosa che potrebbe donargli la vera immortalità, in poco più che sette oggetti materiali. Nel disperato tentativo di eludere la morte si nega in modo definitivo la possibilità di sconfiggerla. L’oltre di cui parlava Nick, di cui si accenna alla morte di Sirius, di cui si sospetta l’esistenza per la natura stessa dei quadri nell’ufficio del Preside, non è più alla portata di Voi-Sapete-Chi. A questo Silente si riferiva ai tempi di “Ci sono cose peggiori della morte”. Perciò la cerca degli Horcrux diventa un viaggio nella stessa malvagità di Voldemort. Un ripetersi della sua natura, un confermare il desiderio di Riddle di essere meglio degli altri, e del prendere trofei dagli sconfitti per dimostrarlo, marchiandoli con l’essenza più corrotta del proprio io.
Ma la Rowling tenta ulteriormente la sorte. Avevo appena digerito e iniziato a godermi la nuova natura degli Horcrux, ed ecco…i Doni della Morte. Tre oggetti misteriosi il cui passato ci è rivelato da una favola e che aggiungono il peso di una nuova cerca alla narrazione. Ero preoccupato, convinto che uno scivolone, adesso, fosse inevitabile. Di nuovo, mi sbagliavo. I Doni diventano un altro pretesto. Ci aprono la via che conduce alla vera natura di Silente. Un uomo, tentato come tutti dal potere e poco incline a sopportare una vita normale con responsabilità normali. La stessa tentazione si affaccia alla mente di Harry che, a differenza del suo mentore defunto, sceglie di non inseguire la chimera dello sconfiggere la morte ma persegue ciò che sa essere il suo compito più gravoso: distruggere gli Horcrux.
In quel capitolo centrale Harry sceglie; e JKR, a stretto giro, mi stupisce aggiungendo al fuoco bruciante di bellezza che è questo libro due idee pulite e originali, innovative nel Fantasy moderno: il senso di proprietà dei Folletti (“Goblin”) e l’arte delle Bacchette (“Wandlore”).
Il dialogo con il costruttore di Bacchette magiche Ollivander è acuto e interessante. Si chiude quel cerchio aperto da lui stesso fin dal primo libro: “E’ la Bacchetta che sceglie il mago”. Si apre un nuovo capitolo, meraviglioso pur se solo accennato, sull’onore della magia. Le Bacchette hanno una propria anima e servono al meglio solo i padroni che, nel rispetto di regole non scritte, conquistano la loro fiducia. Il mondo magico ha le sue leggi e, per quanto gli incantesimi e le Arti Oscure possano farne parte, vi sono arcani (l’onore come l’amore) che producono portenti al di là della comprensione dei molti.
Harry cresce in conoscenza. Scopre le debolezze del suo mentore, ne scopre l’umano lato oscuro; percorre la via che ha portato Voldemort a spezzare la propria anima; comprende il senso equivoco dei Doni della Morte. Solo un incontro potrà aumentarne ancora, se possibile, la determinazione; quello con il personaggio più straordinario dell’intera saga: Piton. La trasfigurazione dell’ex-insegnante di Pozioni, avviata in un sublime crescendo di eventi nel libro precedente, qua tocca il suo apice. Per quasi tutto l’ultimo volume Piton sta in disparte, è nominato di rado e di lui sappiamo poco: il “suo” capitolo iniziale, la menomazione di uno dei gemelli Weasley, le punizioni a Hogwarts. Ma la sua morte è un picco di pura epica drammatica, come sempre non solo nello stile letterario ma anche nella realizzazione “visiva e scenica”. Sa di essere prossimo alla morte, ha capito che Voldemort l’ha richiamato per ucciderlo eppure la sua mente viaggia in una singola direzione: trovare Harry. Freneticamente, in modo folle, ripropone la volontà di catturare il figlio dei Potter. Non supplica, non cerca una salvezza. Perché?
Perché, come ci verrà rivelato in flashback dal Pensatoio (strumento letterario geniale: in tutti i romanzi il punto di vista è quello di Harry, con le sue considerazioni e i suoi pregiudizi che “contaminano” quelli del lettore; ma quando l’autrice desidera darci un altro punto di vista “certo”, ecco comparire il Pensatoio), Severus Piton ha sempre amato, di un amore fulgido e immacolato (“Dopo tutto questo tempo…” – “Sempre”), Lily Potter. Piton, in ultima analisi, è ciò che Harry potrebbe o avrebbe potuto essere. Serpeverde eppure Grifondoro (Silente: “Ho sempre pensato che lo Smistamento venisse fatto troppo presto”), così come Harry; ha instaurato un rapporto di massima fiducia, estremo e alla pari, con Silente (chicca italiana: Piton si rivolge prima con il lei e poi con il tu al Preside), così come Harry; è l’altra pedina fondamentale e destinata al sacrificio nella guerra contro Voldemort, così come Harry. Piton, forse, odia tanto Harry perché vede se stesso come avrebbe potuto diventare da ragazzo; lo ama altrettanto perché è il simbolo puro del suo amore per la madre. Un legame sommo, suggellato dall’ultimissima pagina: Harry chiamerà suo figlio Albus Severus.
Tutto muove verso il finale, geniale e oliato come un perfetto orologio. La Rowling ha sfidato con grande coraggio, a partire dal quarto libro in avanti, l’acume dei lettori costruendo una trama complessa e correndo il rischio di incappare in cliché fastidiosi di un Fantasy meno raffinato. Una alla volta spiega tutte le sue scelte. Così il C.R.E.P.A. diviene un rafforzativo della drammaticità della morte di Dobby (ucciso, tra l’altro, non dalla magia ma da un pugnale) e del cambiamento di Kreacher. I Doni non sono oggetti inventati a caso ma manufatti creati da maghi potenti e antichi che, oltre ad aver già saldato il loro debito con la narrazione grazie a tutti gli altri significati di cui sono stati investiti, acquisiscono anche una logica identità nella storia. Tutto ha una motivazione e non vi è nulla che mi ha deluso perché poco esaminato, o trattato alla stregua di qualcosa di leggero.
Le ultime righe di questo lungo e articolato delirio che forse avete avuto il cuore di leggere fino in fondo vanno a Harry Potter. E’ un personaggio enormemente dinamico. Passa dall’essere un normale ragazzino curioso e fortunato, a un adolescente arrabbiato con chi non è sincero con lui, per finire col diventare un uomo. Che, nei toni, parla come e meglio del grande Stregone di cui è stato allievo. Il “tranquillo” che aggettiva il suo dialogo finale con Lord Voldemort ci fa capire quanto la sua consapevolezza sia arrivata avanti. Ron e Hermione sembrano molto più statici; ma perché la loro maturazione non può essere nemmeno lontanamente paragonabile a quella del protagonista. Lui arriva, a nemmeno diciotto anni, a scegliere di dover morire perché esistono cose più grandi di lui. Cose per le quali il suo alter-ego adulto Piton si è sacrificato allo stesso modo. Cose per cui il piccolo Colin Canon giace senza vita nel salone di Hogwarts. Cose che lui, e solo lui, legato alla morte e al Male da sempre, può metabolizzare.
Ho cercato di spiegarmi la mediocrità (da me tanto odiata) dei primi due romanzi e, vista la magnificenza del seguito, ho raggiunto una conclusione. J. K. Rowling ha immolato alla causa di ciò che voleva raccontare i primi due episodi della saga. In che modo? Lavorando sull’ambientazione, trasformando le prime avventure dei tre amici in fiabe che avevano il solo scopo di convincermi della veridicità del mondo magico. Portandomi, con trame leggere e infantili, a respirare un’atmosfera che, in seguito, si sarebbe dimostrata sempre più densa di amore, dolore ed eroismo.
Nel complesso, e due anni fa mai avrei pensato di poterlo dire, un saga perfetta.