Lo dico subito, e lo dico come premessa a tutte le considerazioni che verranno: non ho capito questo secondo capitolo di IT. Ho capito una delle direzioni prese dal regista, la sua scelta di concentrare la narrazione intorno al tema della memoria (tema a me molto caro di cui ho parlato più e più volte), ma non ho capito molto di tutto il resto.
Non ho capito l’impronta di riscrittura e reinterpretazione della storia: Muschietti ha legittimamente fatto dei cambiamenti ma c’era davvero bisogno, allora, di quasi tre ore di film? Ha tagliato, sfrondato, alleggerito da una parte per poi fare scelte dilatatorie che non ho compreso limitandosi a uno svolgimento davvero lineare e prevedibile nella sua esclusiva componente horror.
Non ho capito la colonna sonora, e non ho capito l’approccio grottesco in alcuni momenti che invece avrebbero potuto (dovuto) essere tesi e intensi. Quando il pubblico in sala ride – e non per una battuta, quelle ci sono, le ho trovate tutte azzeccate, ed è giusto che in quel momento strappassero una risata – mentre la tensione narrativa dovrebbe salire, c’è qualcosa che non va.
Di certo questo secondo capitolo era più complesso da realizzare soprattutto a fronte della scelta obbligata adottata nel precedente film: il romanzo intrecciava passato e presente in un caleidoscopio di perfezione assoluta mentre Muschietti si è improvvisato cronomante e ha spezzato il tempo realizzando, di fatto, due film molto diversi sia come intenti che come impianto. Da una parte i giovani Perdenti (bellissimi), in un film molto incentrato all’aspetto ‘romanzo di formazione’. Dall’altra i Perdenti adulti in un film dedicato alla memoria in una Derry quasi inesistente e in una lotta continua contro le situazioni del passato, contro un Pennywise che cerca disperatamente di sottrarsi alla banalità di un mostro non all’altezza del romanzo di King.
C’è però una cosa che funziona bene: il rapporto con il passato e con la memoria. La dimenticanza, il cancellare le cose che ci hanno fatto male, il rimuovere ricordi scomodi (anche se ci hanno formato) in favore di un presente luminoso. Perché è questo che fanno i Perdenti. Cancellano il passato, godono di un presente di successo ma, a conti fatti, non hanno nessuna consapevolezza o prospettiva per il futuro. In questo Muschietti è bravo e fa una scelta interessante: annienta quasi completamente le vite dei Perdenti adulti facendoci solo intuire che sono, comunque, incomplete. Bloccate, tenute ferme da qualcosa. Lo dice Mike: IT ha dato ai Perdenti qualcosa in più, ma ha anche piantato dentro di loro un cancro che in ventisette anni è cresciuto e ora è arrivato a riscuotere. Non è un concetto banale, anzi. In qualche modo rende giustizia a Pennywise restituendogli un po’ di quello spessore che gli era stato tolto nel primo capitolo, relegandolo di fatto a un mostro comune. Un mostro che si nasconde negli armadietti degli studenti per fare solo paura.
Intorno a questo concetto si sviluppano le parti migliori della pellicola e il regista deve essersi reso conto di avere tra la mani un punto di vista privilegiato perché anche la scelta di mostrarci alcune scene inedite del passato fa parte di un percorso metanarrativo abbozzato ma piuttosto solido: anche nel primo capitolo la memoria era messa a dura prova dalla natura stessa di IT e quelle scene non le abbiamo viste all’epoca perché solo nel presente, scavando nel passato, i Perdenti ricordano davvero TUTTO. Ed è sempre mistificando il passato che Mike riesce a convincere i Perdenti a tentare il rituale di Chüd. La memoria diventa fondamentale e in questo anche la figura decisamente maltratta di Bowers è un altro monito: lui vive nel passato. Lui non ha mai superato quanto gli era successo, non ha dimenticato, non ha avuto la possibilità di andare oltre. E vivere solo di ciò che è stato non può far altro che portare alla follia.
Intorno a questo concetto l’intero impianto narrativo tenta di sollevarsi, di arricchire alcuni aspetti del corrispettivo letterario, di interpretarlo persino. E se da un lato è anche un intento nobile, e in parte riuscito, dall’altro il percorrere facili sentieri di un horror telefonato finisce con l’indebolire il grosso lavoro di approfondimento e riscrittura che Muschietti ha fatto.
L’impressione finale è che Muschietti abbia fatto il film che voleva ma, semplicemente, il film che lui voleva a me non è bastato. Restano tanti i meriti dell’intera operazione ed è sempre interessante vedere pellicole horror che si spingono oltre le Colonne d’Ercole dei 90 minuti. Ma con questo IT e con Midsommar siamo già a una coppia di film e se è vero che due inizi fanno una prova, ci aspetta un futuro interessante. Anche lontano da Derry.