Affido questo manoscritto allo spazio, non con la speranza di ottenere soccorso, ma per contribuire, forse, a scongiurare lo spaventoso flagello che minaccia la razza umana. Dio abbia pietà di noi!
Ulisse Mérou, Il Pianete delle Scimmie di Pierre Boulle
Con queste parole l’ex agente segreto e scrittore transalpino Pierre Boulle apriva il sipario sul racconto postumo del suo personaggio Ulisse Mérou, giornalista francese di un futuro remoto imbarcato insieme al professor Antelle su un’astronave diretta verso un lontano pianeta. Mérou aveva affidato il suo drammatico racconto a una bottiglia, lanciata nello spazio e ripescata da due turisti siderali di un futuro ancora più lontano.
Per Boulle era il 1963. Due anni prima Jurij Gagarin aveva infranto uno dei più grandi limiti dell’umanità restando per quasi due ore in orbita e aprendo così nuovi scenari per tutti gli scrittori di fantascienza.
Era il 1963 e Pierre Boulle pubblicava il suo tredicesimo romanzo: “Il Pianeta delle Scimmie” dove tutto iniziava, appunto, con un viaggio nello spazio.
DUE FILM, TRE SE(PRE)QUEL E UN PARADOSSO
Cinque anni dopo il regista americano Franklin James Schaffner sollevava la cornetta, chiamava Charlton Heston e gli proponeva di interpretare il ruolo di un astronauta destinato a lottare per la sua sopravvivenza dopo l’atterraggio su un’isola dominata da scimmie parlanti e con altri esseri umani ridotti in schiavitù.
E così mentre l’equipaggio della ‘Discovery One’ se la doveva vedere con le fredde e imperscrutabili macchinazioni dell’intelligenza artificiale HAL9000, quello dell’Icarus precipitava su un desolato pianeta dove, proprio come nel romanzo di Boulle, erano le scimmie la razza più evoluta. Se in ‘2001: Odissea nello spazio’ (1968) il Monolito nero accendeva una nuova forma di intelligenza negli ominidi scimmieschi di Kubrick ne ‘Il Pianeta delle Scimmie’ (1968) di Schaffner gli scimpanzè erano in tutto e per tutto l’equivalente di una società umana evoluta, metodica e cinica nei confronti della razza inferiore: gli esseri umani.
Per George Taylor (Charlton Heston) iniziava un’odissea in quello strano pianeta in cui un uomo in grado di parlare rappresentava il più grande pericolo per l’equilibrio sociale raggiunto dalle scimmie. Tra alleanze con gli scienziati di quel mondo, scontri e ribellioni degni dello Spartacus dell’antica Grecia, Taylor arrivava a scoprire una tremenda verità: il misterioso pianeta non era altro che la Terra del futuro devastata da un conflitto nucleare scatenato dagli uomini e dalle cui ceneri era emersa la nuova società delle scimmie. Citando Taylor: “Voi uomini l’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!”.
Per Hollywood, e per la 20th Century Fox, iniziava una delle più interessanti saghe di fantascienza degli anni sessanta e settanta. Dopo ‘Il Pianeta delle Scimmie’, infatti, vennero confezionate a stretto giro altre quattro pellicole che arricchivano (con risultati alterni) la saga dei primati. Nell’arco di cinque anni (la pellicola di chiusura è datata 1973) fu creato un cortocircuito narrativo nel quale la Terra veniva distrutta dalla stesso Taylor ma poi, grazie al pericolosissimo espediente del viaggio nel tempo, tornava a essere protagonista. Ma questa volta con tre scimmie sopravvissute che precipitavano sul nostro pianeta del passato ed erano proprio loro a gettare le basi per quello che sarebbe diventato il dominio dei primati.
Trascurando le inevitabili elucubrazioni su teoria delle stringhe, fisica quantistica o paradossi spazio-temporali, il cerchio era stato chiuso. I quattro film successivi al capostipite della saga (l’unico diretto da Shaffner) non raggiungeranno mai l’eleganza del primo ma metteranno comunque la parola fine alla circolarità della storia. Oppure no?
L’OBLIO E UNA NUOVA ALBA
Ci vollero quasi trent’anni di gestazione prima che il romanzo di Boulle trovasse una nuova collocazione nel cinema del nuovo millennio (l’unica stagione televisiva del 1974 e la serie animata del 1975 furono gli ultimi vagiti della saga) a volte, se la strada è così difficoltosa, forse non vale la pena percorrerla. Nemmeno se la mano a reggere la macchina da presa poteva essere quella di Tim Burton. Nell’ottobre del 2000 a corto di tempo e con una storia rimaneggiata e stiracchiata, iniziarono le riprese del remake/reboot de ‘Il Pianeta delle Scimmie’ ed era il 2001 quando il film uscì nelle sale. Con una trama che incrociava quella del film originale alla logica narrativa del romanzo ma che finiva con la spasmodica ricerca di un colpo di scena all’altezza del capostipite, il risultato fu quello di un film visivamente convincente ma sciatto sotto tutti gli altri aspetti. Era l’ultimo e più definitivo chiodo sulla bara di un progetto che non riusciva a svecchiarsi?
Forse. Ma il tempo, si sa, guarisce tutte le ferite e dieci anni sono un tempo piuttosto lungo. Nel 2011 il mondo del cinema era maturo per lasciarsi alle spalle gli errori del passato e per tentare un’operazione che in altri casi (il Batman di Nolan, per esempio) aveva dato ottimi risultati: un vero e proprio reboot del franchise che aggiungesse tasselli all’epica consolidata e apprezzata dei primi due film originali della serie. ‘L’alba del pianeta delle scimmie’ (‘Rise of the Planet of The Apes’, 2011), diretto da Ruper Wyatt, si rivelò essere proprio questo. Slegato da una continuity oppressiva e svincolato dall’ansia da confronto, raccontava la storia di Cesare (il poliedrico Andy Serkins), uno scimpanzé figlio di manipolazioni genetiche e dotato di un’intelligenza straordinaria, e della sua lotta per la libertà. Così come il Taylor di Heston cercava di affrancare gli uomini dalla schiavitù, allo stesso modo Cesare desiderava per la sua razza una vita lontano da gabbie, maltrattamenti e violenza. La pellicola si concludeva con l’autodeterminazione di Cesare e con i semi di una nuova apocalisse piantati proprio durante i titoli di coda: un virus iniziava a diffondersi per il pianeta, un virus innocuo per le scimmie ma letale per l’uomo.
Una nuova alba per l’interno franchise era sorta.
COME SONO ANDATE LE COSE?
Il cambio di mano alla guida del timone ha ottenuto gli effetti sperati? Oppure l’avvicendarsi di Reeves a Wyatt per le due successive pellicole non è stato all’altezza del compito affidatogli? La verità, come sempre, sta nel mezzo e Reeves è riuscito a dirigere due capitolo molto diversi tra loro sia come contenuto, sia come filosofia. Forse è persino stato capace di preparare un pianeta Terra pronto a ospitare l’equipaggio dell’Icarus (ricordate? era partita nel film diretto da Wyatt) seppure con qualche differenza rispetto all’originale. Comunque, adesso non vi resta che leggerne le recensioni:
– ‘Apes Revolution’ di Matt Reeves(2014)
– ‘The War: Il pianeta delle Scimmie’ di Matt Reeves (2017)
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Questo articolo è stato pubblicato su Nocturno Cinema