Quattro episodi su sette, con ancora nove puntate (tre di questa settima stagione e sei dell’ottava) prima di veder calare il (o un) sipario su uno dei fenomeni televisivi più imponenti di questo ventunesimo secolo. In molti ci eravamo chiesti come sarebbe cambiato Il Trono di Spade con il sorpasso definitivo dello show rispetto alle trame letterarie libri di George R.R. Martin e questi prima quattro episodi hanno in parte risposto alle nostre domande.
Due sono i più evidenti e principali aspetti della piccola rivoluzione che David Benioff, D.B. Weiss e compagni hanno attuato con la settimana stagione del Trono.
Primo: di certo, dopo due intere stagioni piuttosto avare di eventi (se escludiamo, come sempre, un’accelerazione molto importante nei rispetti finali), il passo di questi primi episodi dimostra di essere molto, molto cambiato. Salti temporali un po’ nebulosi, conti saldati con personaggi secolari che, al ritmo di uno a puntata, muoiono o tornano a calcare Westeros, ed eventi, fatti, vicende. Succedono tante cose, davvero tante. Diventa persino difficile tracciare in modo efficace un calendario interno ai Sette Regni anche se, solo considerando lo spostamento di personaggi ed eserciti, i primi quattro episodi devono essersi svolti in un arco di tempo che di certo comprende intere settimane di narrazione. Meglio? Peggio? Se da un lato la sete di eventi trasforma questa settima stagione in un saporito cocktail da bere tutto d’un fiato, dall’altro i personaggi ne risentono. Certo, vantano un curriculum emotivo assemblato, mattone dopo mattone, in ore e ore di confronti verbali, di macchinazioni, di trame e intrecci ma ammetto che, personalmente, mi mancano le querelle come quelle che infuriavano Varys (Conleth Hill) e Ditocorto (Aidan Gillen). L’equazione si sbilancia e la scrittura dei dialoghi soccombe rispetto alla densità di eventi che a questo punto DEVONO essere raccontati.
Secondo: perso (o superato, o accantonato) il timone narrativo di Martin, gli sceneggiatori hanno deciso di correggere la rotta facendo navigare la corazzata Trono di Spade in acque decisamente meno rischiose. In che modo? Strizzando l’occhio a una mitologia fantasy che ogni spettatore appassionato di questo genere conosce molto, molto bene. Così gli scorpioni di Qyburn (Anton Lesser) somigliano molto alla balestra usata da Bard l’Arciere (Luke Evans) durante la battaglia contro Smaug ne Lo Hobbit, i Dothraki che caricano le armate Lannister ricordano i Rohirrim a Elm o sul Pellenor, Roccia del Drago ammicca a Moria e, come mostra la clip di anteprima del quinto episodio, i corvi manovrati da Bran (Isaac Hempstead-Wright) richiamano i crebain di Saruman.
Rivolgersi a un immaginario condiviso permette di dirottare più risorse su altri aspetti ma finisce anche con il penalizzare un prodotto che, con alti e bassi, con lentezze importanti ma con picchi narrativi notevoli, aveva comunque un suo carattere, una sua identità e molti marchi distintivi.
A dirla tutta, la normalizzazione dei riferimenti non è solo un problema del Trono di Spade ma in una serie così lunga che è iniziata sorretta da solidissime spalle letterarie ma che giocoforza ha dovuto sopravvivere alla palude stagnante nella quale Martin ha affondato i romanzi, è molto, molto evidente.
Non abbiamo superato il punto di non-ritorno ma credo sarebbe davvero un peccato se questi piccoli deja vu diventassero la norma banalizzando una trama sulla quale tanti speculano da anni e che, comunque, di certo è già stata intuita in alcune parti.
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