Mi ritrovo sempre più spesso invischiato nella caligine dei ricordi. Ma non indugio contemplando il velo romantico che di solito avvolge il passato, gli accadimenti, gli anni trascorsi: piuttosto penso alla memoria. Alla sua importanza, a quanto è difficile tenerla viva oggi, dove il presente riempie tutti gli spazi cannibalizzando il ciò che è stato e rendendo il futuro un obiettivo troppo lontano nel tempo per essere preso davvero in considerazione.
La domanda è semplice: la memoria fa paura? Può qualcosa che abbiamo già vissuto, che abbiamo superato interiorizzandolo, meritare una sorta di ostracismo mnemonico, una feroce messa al bando dagli scaffali del tempo che compongono il nostro vissuto? La risposta è, ovviamente, no. Cancellare i ricordi complessi o dolorosi non porta da nessuna parte. L’equazione emotiva che concorre a formare un individuo è fatta di tutte le variabili, passate e presenti, che la compongono. D’altra parte, lo dicono chiaro e tondo anche in Inside Out: i ricordi sono lo scheletro attorno al quale si costruisce tutto il resto.
Se la risposta alla domanda di cui sopra è scontata per gli individui, non si può dire lo stesso per le società composte da individui. Pare, e basta guardarsi intorno, per rendersene conto, che ci sia una dannata fretta di cancellare completamente le strutture mentali dei tempi andati correggendole a posteriori, reinterpretandole in chiave contemporanea. Così ci sono censure o rivisitazioni di opere artistiche (letterarie o cinematografiche che siano) che mirano a correggere le presunte storture del passato. Termini razzisti che non possono essere usati, testi che vengono rimossi dalla lista delle possibili letture scolastiche perché sovversivi. Ma ha senso? Non è una dimostrazione di estrema debolezza?
Voglio dire, l’arte è anche riflesso dei tempi. Si nutre delle suggestioni collettive. In certi casi le contrasta, se è arte rivoluzionaria, in certi altri l’amplifica, se è arte popolare. Ma davvero nel 2019, dopo tutto quello che abbiamo vissuto nel secolo scorso, dopo gli strumenti di analisi e scomposizione che l’era Digitale dovrebbe averci consegnato, non siamo in grado di guardare al passato con serenità? Con la forza di chi sa cosa ha conquistato, con la tranquillità di chi è in grado di contestualizzare e che non teme l’epidemia di recrudescenze forcaiole che minacciano di sgorgare dal passato. Non è molto più pericoloso cancellare le tracce dei vecchie e meno evoluti clichè concettuali facendo finta che non siano mai esistiti e correndo il rischio, perciò, di dimenticarli?
Se un pesce ricordasse cosa succede ogni volta che addenta (ammesso che abbia i denti) un succoso verme sospeso a mezz’acqua, credete davvero la pesca sarebbe così soddisfacente per chi impugna la canna? Il pesce dimentica. E commette gli stessi errori, più e più volte al giorno. Perché noi vogliamo a tutti i costi dimenticare cose che fanno parte del percorso formativo di un presente che non è poi così tanto male? E soprattutto, perché come individui siamo forti abbastanza per reggere il peso di ciò che è stato senza averne paura e invece come collettività ci ostiniamo a volerlo trasformare in una versione pop del presente?