Questo pezzo è stato pubblicata integralmente sul numero 34 del Living Force, fanzine del Fan Club Yavin 4.
Nel 1982 il quarantacinquenne Ridley Scott continuò, dopo il capolavoro di Alien (1979), quella che sembrava essere diventata la sua nuova deriva fantascientifica di grande successo. E lo fece girando quella che viene ricordata come una delle migliori pellicole di genere mai realizzata: ‘Blade Runner’. Il titolo del film deriva dal romanzo di Alan E. Nourse, ‘The Bladerunner’ (1974) ma riprende i contenuti di un altro romanzo, ‘Il cacciatore di Androidi’, scaturito dalla geniale e tormentata penna di Philip K. Dick nel 1968.
Il film subì due rimaneggiamenti: il primo con il ‘Director’s Cut’ del 1992 (che mischiò molto le carte in tavola, a tal punto da stravolgere e per certi versi arricchire il messaggio di fondo nella pellicola) e il secondo con il ‘The Final Cut’, nel 2007 che migliorò, da un punto di vista prettamente tecnico, il lavoro del 1992 senza modificarne la trama. Che Scott in dieci anni sia cambiato, che la sua visione del mondo si sia incupita tanto da avvicinarlo maggiormente alla filosofia di Dick seppure con sostanziali differenze rispetto ai contenuti del romanzo, non ci è dato saperlo. Certo che è che il lavoro del 1992 è certamente più oscuro.
‘Blade Runner’ viene riconosciuto, in modo unanime, come pellicola marcatamente cyberpunk e la cosa di per sé definisce già la visionarietà del progetto perché il termine cyberpunk verrà coniato solo un anno più tardi da Bruce Bethke nel suo omonimo racconto. Ed è poi da lì, con il picco a metà degli anni ottanta, che autori come Gibson e Sterling arricchiranno e definiranno in modo molto preciso confini e caratteristiche di un cyberpunk finalmente maturo.
Ma ‘Blade Runner’, anche in questo, precorreva i tempi. Ambientato in una Los Angeles nel 2019 tratteggia alla perfezione quelle che saranno le caratteristiche tipiche delle città futuristiche. Poco ci viene mostrato del mondo all’esterno della città ma di certo sappiamo che esistono colonie nello spazio e che il verde, gli alberi, e la natura sono del tutto bandite nei territori urbani. E che piove, molto. Un clima funestato dall’inquinamento o da possibili disastri ecologici rende la Los Angeles del futuro cupa, caotica e a al tempo stesso capace di creare spietate bolle di solitudine tra i suoi abitanti.
Il protagonista è Rick Deckard (Harrison Ford), detective in parte trapiantato dall’hard boiled di Raymond Chandler, e in parte arricchito di caratteristiche decisamente più malinconiche e romantiche. Il suo compito è ritirare androidi, i Nexus 6, che rifiutano di arrendersi a quella che è la loro naturale scadenza: nel mondo del futuro infatti i replicanti sono organismi sintetico-organici costruiti per specifici impieghi (militari, di bassa manovalanza, sessuali) che, come tutti i costrutti, hanno una scadenza impiantata nelle loro struttura. Non possono vivere più di quattro anni.
Un giallo investigativo, una noir fantascientifico a tutti gli effetti, in cui però l’indagine e il ritiro dei replicanti sono al tempo stesso nucleo della narrazione e pretesto per dissotterrare tematiche molto, molto più complesse. E non solo, tematiche che trovano una stringente attualità anche ai giorni nostri e la cui complessità, evidentemente, già era nota nei lontani anni sessanta quando Dick tratteggiò ‘Blade Runner’ (dobbiamo dirlo, in modo molto più disincantato e oscuro della sua versione cinematografica).
La lotta per la sopravvivenza degli androidi e l’umano carisma di Rick Deckard (un detective disilluso e malinconico, che fa il suo lavoro fino in fondo ma che si innamora di Rachel (Sean Young), una replicante che non sa di esserlo, ci costringe a un confronto molto duro con noi stessi. Troviamo da una parte il desiderio di vivere dei Nexus la cui inumanità ci è solo mostrata attraverso doti fisiche eccezionali ma con i quali, per contro, è difficile non simpatizzare. Soprattutto quando Rachel, prototipo della sua serie, scopre che tutti i suoi ricordi sono artefatti, comprende di essere un costrutto la cui infanzia a tutti gli effetti non esiste. E’ proprio questa sua fragilità alla quale Deckard non riesce a restare indifferente che si aggiunge, con forza, alla parte della bilancia rappresentata dal detective. E’ proprio l’amore che nasce tra un umano e un replicante a farci riflettere ancora di più su quale sia la reale differenza tra i due.
Questo non impedisce però a Deckard di portare a termine il suo compito come se fosse l’amore che si prova per lui (lei) a rende più umano, o umano del tutto, un Nexus: Rachel non dovrà essere ritirata ma i fuggiaschi sì.
E’ il confronto finale tra Roy Batty (Rutger Hauer) e Deckard a gettare ancora di più un’ombra sulle diversità tra uomini e costrutti. La meschinità della razza umana, infatti, oltre che essere più di un legittimo sospetto che ognuno di noi ha anche solo per la conoscenza della storia, è ben rappresentata in ‘Blade Runner’. La solo idea di creare organismi così simili all’uomo in tutto e per tutto tanto da prevedere la possibilità che questi sviluppino sentimenti, e per questo dotarli di una vita limitata in modo da tenerli sotto controllo, è genuino di una divinità crudele come solo l’uomo può essere. Per questo non riusciamo mai a condannare del tutto Roy Batty e Pris (Daryl Hannan) quando decidono di uccidere il dottor Eldon Tyrell (Joe Turkel), loro creatore, appreso che sarà impossibile ottenere più tempo per continuare ad amarsi. Come androidi. Ma come esseri viventi, come uomini.
Perciò l’uomo crea i Nexus, gli dona così tanta intelligenza da permettergli di innamorarsi, ma nega loro la possibilità di essere umani fino in fondo attraverso la condanna con una morte controllata. Un’esistenza scandita dalla certezza della propria morte non può mai essere vissuta fino in fondo.
Eppure, nonostante la crudeltà alla quale sono sottoposti, anzi forse proprio grazie alla mostruosa sperimentazione di cui sono vittime, danno alla vita un valore talmente grande da redimere i biechi sentimenti prettamente umani: odio, rancore, vendetta.
E’ questo il senso dello scontro finale: Roy Batty salva Deckard (nonostante questi abbia appena ucciso Pris, la sua amata) e piange, con lacrime nella pioggia, per tutto ciò che andrà perduto al momento della sua scadenza. Così imminente da trasformare il salvataggio del detective nella sua ultima azione prima di morire.
Perché di morte, a tutti gli effetti si tratta.
Il finale non è però priva di speranza. Fuggendo dalla città che sembra raccogliere tra le sue spire molta della malvagità dell’uomo, Deckard e Rachel continuano il loro futuro impossibile (suggellato dalla visione e dall’origami di un unicorno, il simbolo della purezza e dell’amore) per quanto gli sarà concesso. L’oscura profezia che accompagna ogni Nexus, infatti, potrebbe non risparmiare nemmeno Rachel.
“Peccato però che lei non vivrà!”.
Tutto questo all’interno di un film girato trent’anni fa ma che si dimostra ben più che attuale. Il 2019 è ancora lontano e se non vivremo nella città tratteggiata magistralmente da Scott, non è detto che le cose possano non prendere quella direzione.
Come accennavo, il Director’s Cut complica molto le cose. La strana purezza dei Nexus viene messa in discussione mentre viene accentuata la decadenza della razza umana con un gioco di ombre inquietante e camuffato in un elegantissimo chiaro-scuro.
In che modo? Vi lascio la curiosità di vederlo, se non lo avete già fatto. O forse ne riparleremo.