Ci sono autori che dimostrano una particolare affinità con lo strumento narrativo del racconto breve, altri che necessitano di qualche cartella in più per sviluppare la loro visione e altri ancora che danno il meglio se devono misurarsi con la complessa e solida struttura del romanzo. E poi ci sono gli autori che raccontano storie, storie profonde, storie che prescindono delle classificazioni, dalle lunghezze, dai formati: Luigi Musolino è uno di questi e lo dimostra con Eredità di Carne.
Non è facile inquadrare con coordinate canoniche un’opera viscerale come Eredità di Carne. Non è facile perché se qualcuno cerca di avvicinarsi al testo impugnando lo strumento pigro e spuntato delle “classificazioni a tutti i costi” rischia di farsi male e di perdersi nella ricerca di qualcosa che non ha senso cercare. Eredità di Carne è, come deve essere e come sa essere, una storia. Una storia oscura, fatta di sofferenza, di predestinazione, di entità perdenti e perdute che setacciano il loro presente alla ricerca di qualcosa che dia un senso alle loro vite.
Intrappolato nella vischiosa convinzione di meritare l’infelicità c’è Michele Giot, un ragazzo di montagna a cui la vita ha servito una brutta mano d’apertura. Un ragazzo che vive nella casa di famiglia, legame e catena con un passato che allunga le sue ombre nere anche nel presente, un ragazzo che cerca il riscatto tra le mura inquiete dell’ex manicomio Pracatinat.
Intrappolata tra la necessità di proteggere sé stessa e l’amore c’è Elisa, l’ex ragazza di Michele. Un’esistenza scandita da fragilità che per la società contemporanea diventano debolezze e la voglia di costruire qualcosa di buono insieme a Michele. Che l’ha capita, che la faceva sentire importante, che completava con le inquietudini di un ragazzo solitario e troppo vicino all’alcol le incertezze di una ragazza a cui la vita non ha mai dato più di quanto ha preteso.
Intrappolato dai debiti, da errori che non poteva commettere, da una vita da cui avuto qui di quanto abbia mai dato c’è Oliviero. Ex amico e socio di Michele, è lui che trasforma il manicomio Pracatinat da luogo oscuro a opportunità. Tra le mura del Pracatinat c’è un piccolo tesoro che aspetta solo di essere raccolto e Oliviero ha bisogno di Michele per una sola notte. Una notte in cui saldare debiti e crediti con la vita.
E per ultima, intrappolata in una leggenda che diventa maledizione e che lei stessa contribuisce ad alimentare, c’è FameNera. La Strega Cannibile. L’anima oscura del Pracatinat e dei boschi che circondano l’ex manicomio.
Musolino orchestra l’intreccio di queste anime infelici trascinando il lettore nel suo mondo già dalle prime righe del romanzo. Bastano poche battute e la percezione di non essere in un racconto, di non essere in un romanzo, ma di essere proprio dove vuole l’autore è chiara e inconfondibile. È una storia di perdenti, quella di Musolino. Una storia macchiata da quei colori sporchi in cui tutti siamo inciampati almeno una volta nella vita. Quei colori che poi ci sono rimasti addosso, che non siamo mai riusciti del tutto a togliere, che sono lì a sussurrare di un mondo fatto di sliding doors sbagliate. Non opportunità, ma sconfitte.
C’è una provincia cinica che si sazia di sé stessa, delle sue sconfitte ma che riesce comunque a mostrare una sua dignità. Nella caduta. Nel sangue. In quello che può essere perché DEVE essere, ci sono moti di orgoglio scanditi dalla perdita e dalla rassegnazione. C’è una terra ferita da errori del passato, ci sono luoghi (i Necromilieu di apertura) che pagano questi errori e che cibandosi del male e della follia diventano peggio di tutto il dolore che hanno ospitato. Come catalizzatori. Come reazioni chimiche bilanciate dalla sofferenza, dal ricordo sbagliato, dalla fame.
Eredità di Carne è una storia. È una storia dalla quale è difficile staccarsi perché al suo interno c’è molto di ciò che abbiamo paura. E la Strega Cannibale, alla fine, è il mostro meno spaventoso di tutti perché i mostri peggiori sono dentro di noi.