L’oscurità della tenebra che avvolge la vittima, la tremenda oppressione dei polmoni, i soffocanti vapori della terra umida cospirano con la sinistra considerazione che si è ormai oltre i più remoti confini della speranza, che il nostro è il fato dei morti, in modo che il cuore umano si gonfia di tale terrore e disperazione, quali non possono venir sopportati, anzi neppure concepiti.
Una delle poche libertà che Poe si concede, uno dei pochi passaggi ne Le avventure di Gordon Pym in cui Poe è il Poe che mi aspettavo. Perché per il resto il viaggio di Pym, iniziato quasi per gioco come clandestino, è un vero e proprio romanzo avventuroso. Un po’ Moby Dick (ma scritto ben prima del capolavoro di Melville), un po’ cultura popolare (immaginate un testo che dettaglia l’etologia di pesci e uccelli, la geografia, la vita di mare, e lo fa sostituendosi a una cultura scolastica che al tempo era poco accessibile) e un po’ viaggio nel meraviglioso e nella scoperta, Le avventure di Gordon Pym é un testo sorprendente.
Sorprendente per la cura nei dettagli, per la volontà dell’autore di rendere tutto estremamente vero e possibile, per la capacità di Poe di immaginare la vita di mare e per la sua visione delle terre allora misteriose dell’Antartide. Continenti, quelli artici, che trascinano a sé l’immaginazione dei grandi autori (lo stesso Lovecraft subirà il fascino del gelo nel suo “Alle montagne della follia”).
Non è il Poe degli Usher, del Pozzo e il Pendolo, della Morte Rossa. O non lo è quasi mai. Le ultime pagine, l’epilogo del viaggio di Pym, affrescano un orrore indicibile, cosmico persino, che in qualche maniera sembra arrangiare, in un accordo spaventoso, il futuro alla grande mente di Howard Philips Lovecraft.
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