Disclaimer: questa non è una recensione. Non è un pro o un contro al vetriolo (ne ho già visti troppi in giro) nei confronti di un buon film. Un buon film, appunto. Non un capolavoro, non una disgrazia per l’intero genere umano. Perché sì, esistono ancora prodotti creativi che sono “solo” buoni senza essere eccelsi o senza essere inverecondi. Perciò, liquidata la faccenda delle stellette da appiccicare sulla casacca di Don’t Look Up (DLU), vado diritto al sodo.
Sono due le considerazioni che vorrei fare. La prima è legata al tempismo. Mi sono chiesto più volte come sarebbe stato accolto Don’t Look Up dalla grande centrifuga social se fosse uscito anche solo a inizio 2019, quando il COVID non era nemmeno sulla periferia dei nostri radar. Perché credo che in questi ultimi due anni la polarizzazione in bianco e nero tipica dei social abbia subito un’accelerazione notevole. Perché credo che le barricate ideologiche a cui DLU fa riferimento esplicito trovino perfetta risonanza su quasi qualunque tema (alto o meno che sia) venga dato in pasto agli algoritmi del web. Guardarsi riflessi in uno specchio che accentua i nostri difetti non è mai piacevole – per quanto potrebbe essere incredibilmente utile se fatto con la giusta attitudine – e DLU in questo momento ha fatto proprio questo: sbatterci in faccia, senza offrire soluzioni, rimedi o alternative, la latrinale qualità comunicativa del nostro presente.
E qui passiamo alla seconda considerazione. La cosa che mi ha fatto più male di DLU è stato l’aver visto nero su bianco, scolpito nella pietra e certificato senza ombra di dubbio il rapporto che il nostro presente ha con il futuro. Quale tipo di rapporto? Orribilmente, nessun tipo. Il futuro non esiste. Non è nemmeno più un parente scomodo di cui occuparci, un vecchio zio instupidito a cui prestare paziente attenzione: semplicemente il futuro non ha più posto nella visione del nostro presente. E se questo traspare dai continui inciampi di una ‘economia verde‘ che non sa nemmeno da dove partire, è del tutto evidente nella fin troppo concreta gestione della crisi di DLU. Sei mesi ci separano dall’arrivo di un asteroide di classe ELE (Extinction Level Event) capace di spazzare via la razza umana? Sei mesi sono futuro remoto. Remotissimo. Oggi dobbiamo occuparci della serie del momento, del film del momento, della nuova app del momento, del nuovo social del momento, del talent o del reality del momento. E domani? Della serie che arriverà nel nuovo oggi. E così via, in un uroboro di mancanza di visione.
Perciò è tutto un susseguirsi di oggi. Di qui e di ora. Un vortice di cose che ci volano addosso finendo imbrigliate nelle enormi vele che abbiamo spiegato per navigare questo faticosissimo e vorace presente. È uno dei tanti sottotesti di DLU, per me quello più inquietante e forse anche quello più centrato. Tutti, nessuno escluso, rincorrono il qui e l’ora. La comunicazione passa nei binari del qui e dell’ora. Con i social, con i meme, con le trasmissioni del momento, con i click e con gli ascolti. Perché non stare al passo con quello che succede minuto per minuto ci precipita in una bolla di non-appartenenza che oggi, in questo oggi, appare insopportabile. Essere esclusi dagli hashtag e dai trending topic è sinonimo di un isolamento che, invece di essere necessario come dovrebbe, percepiamo come ostracizzante. Esclusivo (nel senso che esclude) e ha tutto l’aspetto di una grigia anticamera verso il non-essere: l’appartenenza a un futuro senza presente.
È la stessa appartenenza, questa, che estremizzata spinge alla fratturazione della realtà. Ma questa è un’altra storia.