“L’ultima volta che Ben e Lois Devine videro Veronica Glass, la nota artista delle mutilazioni, fu a una festa suicida a Cerulean Cliffs, una colonia di artisti ben al di là delle loro possibilità”
Inizia così. Inizia esponendomi alla cinica ironia delle divinità letterarie che a gennaio del 2000 avevano piazzato sul mio sentiero di lettore Cecità, e che oggi si prendono gioco di me offrendomi “La fine della fine di ogni cosa”. Cosa ho trovato tra le pagine di questo racconto?
Ci sono degli artisti. C’è una villa in riva al mare, aggrappata alle rocce di una scogliera. Ci sono delle feste e tutto intorno “la rovina”. Un male indefinito e indefinibile che sta piano piano rosicchiando ogni cosa. Divora luci. Divora la vita. Trasforma tutto in polvere spazzando via l’eredità materiale dell’uomo.
Tra le città distrutte, tra le onde di un mare reso grigio e morto, tra i prati aridi che Dale Bailey racconta ha risuonato nella mia testa una poesia scritta in un altro luogo e in un altro tempo, l’Ozymandias di Percy Bysshe Shelley.
“Null’altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine”
Perché? Forse perché quella parola, ‘rovine’, che tanto bene si sposa alla fine delle cose di Bailey. O forse – soprattutto – perché Ben Levine è un poeta. È un poeta che odia e ama la sua arte. Odia e ama la semplicità delle cose che possiede, odia e ama la lussuria di ciò che potrebbe avere e che non ha. O non vuole. O che ha senza volerle davvero. Nella villa alla fine delle cose si ritrovano artisti. Artisti che dovrebbero conoscere il mondo, che dovrebbero averlo esplorato nelle sue parti più nascoste e che proprio per questo, in qualche maniera, dovrebbero resistere più di tutti alla “rovina”. È forse quello, in realtà, il senso delle feste suicida? Un ultimo fronte di resistenza, una sorta di legge del più forte, un tentativo non tanto di sopravvivere quando di morire per ultimi?
“L’arte per l’arte”
È il mantra di Veronica Glass. Opaco personaggio che sembra aver danzato sulla fine del mondo prima che il mondo iniziasse davvero a finire. Veronica Glass è tutto ciò che Ben vuole e tutto ciò di cui ha paura. È la risposta alle domande che non vengono fatte. È a suo modo l’inizio e la fine della rovina, ma di una rovina persino più profonda di quella fisica che Ben e gli altri affrontano. Una rovina morale. Una resa all’arte per l’arte.
“Perché c’è bellezza nel dolore e nella nostra capacità, nel nostro coraggio, di sopportarlo”
Eppure. Eppure Bailey riesce a distillare speranza. A riportare la bellezza al centro. Nel caleidoscopio di morte e dolore e sofferenza e resa e nichilismo che Veronica Glass incarna e in cui tutti gli altri guardano, Bailey riesce a dare colore alla rovina. Riesce a raccontare che la bellezza perdura anche se non c’è più nessuno a guardarla.
Oggi, più che in altri momenti, ne avevo bisogno.