E' fresca di qualche giorno la notizia riportata da 'La Repubblica': il pubblico dello stivale sta iniziando una lenta metamorfosi che lo porterà, pare, a preferire i film in lingua originale rispetto a quelli doppiati. Per noi italiani, che veniamo da un'antica e prestigiosa scuola di doppiaggio, si tratta di uno schiaffo morale: sembra essere la formalizzazione che qualcosa nel mondo del doppiaggio, purtroppo, è cambiato (non ultima la polemica su 'Lincoln' (2012) e sulla voce italiana, Pierfrancesco Favino, di Daniel Day Lewis).
Ebbene sono passate appena due settimane da quando mi ero lanciato in sperticate riflessioni sul futuro della Saga delle Saghe, ed ecco che parti dei miei ragionamenti trovano conferma grazie a una smentita. Il vulcanico (e vulcaniano) J.J. Abrams infatti, dopo aver escluso la possibilità di trovarsi a dirigere il prossimo Star Wars proprio per la sua etica da trekker e la voglia di restare un semplice fan di Guerre Stellari, adesso fa marcia indietro. Da un giorno e mezzo, infatti, impazza nell'etere una nuova profezia: il creatore di Lost dirigerà Episodio VII.
Dietro a questo titolo e ai suoi legami con la realtà fumettistica degli X-Men di cui parlerò tra poco, si nascondono molte e molte cose. La prima di tutte è, per citare Star Wars, la chiusura del cerchio. In che senso? Nell'unico senso possibile: quello del regista. Mr. 'I soliti sospetti' Bryan Singer, che aveva fatto un lavoro magistrale girando i primi due X-Men (e che aveva abbandonato il terzo capitolo per gettarsi a capofitto sul fallimento di Superman Returns (2006)), si ricongiunge alla sua creatura. Dopo l'X-Men: First Class di Matthew Vaughn (2011), che aveva ridato nuovissima linfa a una serie incamminata verso un nemmeno tanto lento declino, ecco che il sequele del prequel (ditelo veloce, se riuscite) torna nelle mani dell'ex bambino prodigio. Cosa dobbiamo aspettarci?
E mentre la Disney colleziona rifiuti più o meno espliciti da parte di noti registi nel tentativo di trovare qualcuno che dia vita alla Prossima Trilogia (al momento si è aggiunto a J.J. Abrahams, nel rifiuto, anche Guillermo Del Toro), noi appassionati cosa facciamo? Quello che ci riesce meglio, ovvio, speculiamo, immaginiamo, ci preoccupiamo e non vediamo l'ora di rispolverare le spade laser che dal 2005 non hanno più visto una sala cinematografica. Le cose, di sicuro, sono destinate a cambiare.
Questo pezzo è stato pubblicata integralmente sul numero 34 del Living Force, fanzine del Fan Club Yavin 4.
Nel 1982 il quarantacinquenne Ridley Scott continuò, dopo il capolavoro di Alien (1979), quella che sembrava essere diventata la sua nuova deriva fantascientifica di grande successo. E lo fece girando quella che viene ricordata come una delle migliori pellicole di genere mai realizzata: ‘Blade Runner’. Il titolo del film deriva dal romanzo di Alan E. Nourse, ‘The Bladerunner’ (1974) ma riprende i contenuti di un altro romanzo, ‘Il cacciatore di Androidi’, scaturito dalla geniale e tormentata penna di Philip K. Dick nel 1968.
Sgombriamo subito il campo da facili fraintendimenti: non sto parlando della possibile presenza di un non-morto come concorrente alla prossima edizione del grande fratello. Anche perché, e lo dico senza timore di smentita, ho come l’impressione che non sarebbe proprio una novità. Chiarito di cosa non ci vogliamo occupare, andiamo nel vivo di questa breve recensione. Una delle tendenze che si è andata via via rafforzando negli ‘zombie movie’ proprio a partire dal 2005 (data di uscita del romeriano ‘La terra dei morti viventi’) è stato l’approccio laterale all’invasione dei morti-viventi. Non più pellicole incentrate su come il mondo reagisce alla minaccia degli zombi, ma spaccati di come ecosistemi ridotti si rapportano all’imponderabile prosperare dei mangiatori di uomini (penso a ‘L’Orda’, ‘Diary of the dead’, ‘Survival of the dead’, etc).