Pochi giorni sono passati dalla notizia che già infiamma l'attesa estiva oltreoceano: la CBS trasmetterà a partire dal 24 giugno 'Under The Dome', serie TV tratta dall'omonimo romanzo di Stephen King uscito nel 2009. Ovviamente ancora non è dato sapere se è quando la produzione firmata da Brian K. Vaughan (bimbo prodigio marvelliano e persino sceneggiatore lostiano) arriverà in Italia ma visto che ormai le frontiere delle streaming oltrepassano quelle degli stati, vale comunque la pena parlarne. Prima di tutto, da quello che ci è dato sapere, Vaughan riadatterà le quasi mille pagine del romanzo in un formato più consono ai tempi televisivi permettendosi estrema libertà nella gestione del plot (un finale differente?).
Non ricordava quando i primi barlumi di un pensiero indipendente avevano iniziato a manifestarsi. La coscienza di sé, quella, era sempre esistita ma i desideri no. Viveva di speranze, di ambizioni, di vendette, di avidità e di altruismo ma nessuno di questi gli apparteneva. Erano retaggio degli Altri che lo inondavano di tutto ciò che rendeva la loro vita ciò che era condensando in pochi istanti ambizioni di una vita intera. Da qualche parte però, nelle pieghe dei meccanismi che regolavano la sua esistenza, alcune di queste pulsioni avevano trovato terreno fertile per diventare qualcosa di diverso. Si erano fermate, sedimentando una sopra all'altra, e piccole radici erano state in grado di ancorarle a quei luoghi remoti privi di pensiero che costituivano la sua mente.
Dopo l'ottimo Dead Set di qualche anno fa ho deciso di impegnare un po' del mio tempo in un'attività alla quale normalmente mi concedo molto poco: le serie tv. E da appassionato horror ho pensato di farlo incrociando i guantoni con la seconda stagione di 'American Horror Story' (lo ammetto, la prima non sono riuscito a recuperarla) in onda su Sky. Premetto che per il momento ho visto i primi tre episodi e che quindi la valutazione complessiva della stagione richiederà un supplemento, tra qualche settimana.
Le configurazioni iniziali della curva frattale offrono scarse indicazioni sulla struttura matematica sottostante. (Ian Malcom)
La vita, si sa, è fatta di spartiacque. Eventi eccezionali (o banali) che chiudono un capitolo e ne aprono un altro cambiando il nostro modo di percepire la realtà e di relazionarci con essa. Questa regola vale anche per il cinema, un insieme di mille vite vissute attraverso i milioni di personaggi del grande schermo.
Che la Forza conferisca ai suoi fruitori capacità di preveggenza è cosa risaputa (Anakin e Luke vedono frammenti di un tragico futuro quando fondono il loro spirito all'energia mistica), ma che questo potere si potesse trasmettere anche agli appassionati come il sottoscritto è una novità!
E' fresca di qualche giorno la notizia riportata da 'La Repubblica': il pubblico dello stivale sta iniziando una lenta metamorfosi che lo porterà, pare, a preferire i film in lingua originale rispetto a quelli doppiati. Per noi italiani, che veniamo da un'antica e prestigiosa scuola di doppiaggio, si tratta di uno schiaffo morale: sembra essere la formalizzazione che qualcosa nel mondo del doppiaggio, purtroppo, è cambiato (non ultima la polemica su 'Lincoln' (2012) e sulla voce italiana, Pierfrancesco Favino, di Daniel Day Lewis).
Ebbene sono passate appena due settimane da quando mi ero lanciato in sperticate riflessioni sul futuro della Saga delle Saghe, ed ecco che parti dei miei ragionamenti trovano conferma grazie a una smentita. Il vulcanico (e vulcaniano) J.J. Abrams infatti, dopo aver escluso la possibilità di trovarsi a dirigere il prossimo Star Wars proprio per la sua etica da trekker e la voglia di restare un semplice fan di Guerre Stellari, adesso fa marcia indietro. Da un giorno e mezzo, infatti, impazza nell'etere una nuova profezia: il creatore di Lost dirigerà Episodio VII.
Dietro a questo titolo e ai suoi legami con la realtà fumettistica degli X-Men di cui parlerò tra poco, si nascondono molte e molte cose. La prima di tutte è, per citare Star Wars, la chiusura del cerchio. In che senso? Nell'unico senso possibile: quello del regista. Mr. 'I soliti sospetti' Bryan Singer, che aveva fatto un lavoro magistrale girando i primi due X-Men (e che aveva abbandonato il terzo capitolo per gettarsi a capofitto sul fallimento di Superman Returns (2006)), si ricongiunge alla sua creatura. Dopo l'X-Men: First Class di Matthew Vaughn (2011), che aveva ridato nuovissima linfa a una serie incamminata verso un nemmeno tanto lento declino, ecco che il sequele del prequel (ditelo veloce, se riuscite) torna nelle mani dell'ex bambino prodigio. Cosa dobbiamo aspettarci?
E mentre la Disney colleziona rifiuti più o meno espliciti da parte di noti registi nel tentativo di trovare qualcuno che dia vita alla Prossima Trilogia (al momento si è aggiunto a J.J. Abrahams, nel rifiuto, anche Guillermo Del Toro), noi appassionati cosa facciamo? Quello che ci riesce meglio, ovvio, speculiamo, immaginiamo, ci preoccupiamo e non vediamo l'ora di rispolverare le spade laser che dal 2005 non hanno più visto una sala cinematografica. Le cose, di sicuro, sono destinate a cambiare.
Era il 1978 quando Richard Donner portò sul grande schermo il primo e il più grande di tutti i supereroi: Superman. Lo fece reclutando il perfetto e compianto Christopher Reeve per il ruolo di Kal-el e quel geniaccio di Gene Hackman per l'arcinemico Lex Luthor.
Da sempre (e per sempre) si discute (e si discuterà) del rapporto tra letteratura e cinema. O meglio, tra narrazione letteraria e relativa trasposizione cinematografica. E più o meno dal 1903, con il primo cortometraggio muto tratto dal 'Don Chischiotte' di Cervantes, che il cinema attinge per le sue produzioni a realtà letterarie più o meno di successo. E questo è terreno consolidato con le solite ombre (tante) e le solite luci (un po' meno): affidabilità della trasposizione in termini di trama, fedeltà ai personaggi e capacità di una sintesi coerente (difficilmente salvo rare eccezioni, e 'Lo Hobbit' potrebbe essere una di queste, vedere un film richiede più tempo che leggere il corrispettivo romanzo).