“Avrebbe, nel senso più puro del termine, avverato i suoi sogni”
Qualche volta si incontrano romanzi che nascondono al loro interno la chiave giusta da utilizzare per aprire ogni singola porta che consente l’accesso alle loro molteplici stanze. Romanzi che intrecciano stili e toni differenti, che mescolano l’ironia e il dramma usando il grottesco come amalgama e il cui valore, in definitiva, è ben superiore alla somma delle loro singolo parti.
La casa nel sonno di Jonathan Coe è uno di questi. Mescola il frizzante entusiasmo di giovani studenti londinesi, artisti o aspiranti tali, bohemien in aria di borghesia, con la catalessi comatosa in cui piombano tutti i loro sogni, una dozzina di anni dopo la fine delle avventure universitarie. Ci sono Terry e Robert e Gregory e Veronica e, più di tutti, Sarah. Pieni di sogni. Sogni così veri e così densi da cambiare la sostanza della realtà in “allucinazioni ipnagogiche” che prima si perdono e che poi, a poco a poco, vanno facendosi via via più consistenti.
Nella Londra degli anni ’80 ci sono grandi speranze, si respira aria di aspettative e – ripeterò questa parola più volte – di sogni. Ci sono gli amori cocenti dell’università, emozioni troppo grandi da sopportare amplificate dall’onirica ricerca di sé e degli altri, e ci sono i caffè letterari, le riviste, il cinema e più di tutto la monolitica Ashtown, casa centenaria che ospita gli studenti, testimone della nascita, della crescita, della morte e della resurrezione di tutti i sogni di Terry, di Robert, di Gregory di Veronica e Sarah.
“Nessuno dice bugie nel sonno”
Uno degli altri mantra di Coe. Una delle verità che orbitano attorno a Sarah e alle sue allucinazioni ipnagogiche, sogni talmente reali da sovrascrivere la realtà. Non è un caso sia intorno a Sarah, in apparenza la più fragile di tutti, che si andranno a condensare tutte le assurde, intrecciate, statisticamente improbabili e oniriche vicende degli altri protagonisti.
Coe gioca con il lettore servendogli una serie incredibile di coincidenze dando l’impressione a volte di pescare a casaccio nel sacchetto della fatalità e altre volte di scegliere una via tanto facile quanto improbabile per raccontare la sua storia. Un rasoio di Occam al contrario, quello che impugna. Un rasoio affilato da sofisticati (e spericolati) esperimenti meta-narrativi come il meta-libro “La casa del sonno”, feticcio emotivo che attraversa le poche del romanzo, o il meta-film “Sergente Cesso”, sogno/incubo che annienta e risolve la vita di uno dei protagonisti.
Un rasoio onirico che però a volte sembra perdere il proprio filo disorientando proprio come disorientano i sogni bizzarri del mattino (o delle ultime ore della notte).
Come quando sogniamo di litigare con qualcuno e la rabbia, il fastidio e l’insofferenza per quel qualcuno restano con noi fino alle ore inoltrate del mattino.
Ecco, La casa del sonno è proprio questo. È un litigio onirico, un sogno romantico, una visione notturna bizzarra. Qualcosa che può farci rabbia, può farci innamorare, più spiazzarci. Ma che ci resta addosso anche molte ore dopo esserci svegliati.
Con tutti i suoi difetti ma con anche tutta la sua unicità.
Lo puoi trovare qui: