“I cattivi hanno i biscotti“
Una delle tante frasi del romanzo che mi sono rimaste più impresse. Una delle tante verità nascoste, appetenze svelate che si trovano tra le pagine di questo libro. Perché? Perché T non è solo un romanzo. È una sentenza, un grido disperato ma anche un grido di battaglia.
La lucida follia del Don Chisciotte che lotta, nonostante tutto lotto.
Forlani, con coraggio, non si risparmia. Né nel mettersi a nudo con una sincerità disarmante, né nello sferzare il presente scardinandone l’involucro patinato e scoprendo l’orrore che si nascondo sotto di esso.
C’è voglia di combattere, in questo romanzo. C’è una chiamata alle armi, un telegramma che non ha destinatario ma messo a disposizione di chiunque voglia raccoglierlo, di chiunque abbia la lucidità di mettersi in discussione.
E ci sono l’orrore e la raffinatezza dell’autore.
Lo puoi trovare qui:
Ho inserito la lettura di M’rara durante una lunga operazione di recupero lovecraftiano tutt’ora in corso e, passata qualche settimana, mi sono ritrovato a pensare a quel bel racconto di Howard Phillips nel quale una divinità terribile manifestava il suo potere attraverso gli specchi.
Poi mi è venuto il dubbio: un momento. Ma quella storia era davvero di Lovecraft? No. L’ambientazione italiana lo escludeva eppure il terrore che i protagonisti si trovano ad affrontare era genuino e mi ricordava gli incubi partoriti dal maestro inglese.
E infatti il demone a cui pensavo era proprio M’rara, creature di Alessandro Forlani.
Credo non ci sia modo migliore per testimoniare la qualità di questo racconto.
Lo puoi trovare qui:
“Guardò scogliere franare in mare e guardò prati che rattrappivano, guardò foreste marcire in fango e le siepi sulle rocce. Guardò uccelli su carogne, guardò i carnivori sbranare uccelli, guardò animali villosi enormi che agonizzavano di carestie. Vide un pianeta di pietre e sale che invecchiava senza vita. Sentì il tempo dilatarsi, se esisteva ancora il tempo. Provò il terrore che su quel mondo non ci fosse alcuno scopo.”
C’è musica nel romanzo di Alessandro Forlani. Una musica che parte proprio dal testo, dal suo ritmo, da un stile che rimbalza in ciascuna delle ventuno storie che lo compongono. E allora ecco che leggere queste storie è come pizzicare le corde di un’arpa, e scegliere l’ordine con cui farlo è come comporre una melodia.
Perché ci sono intrecci, fili sottili o più spessi, incontri casuali o frequentazioni solide che collegano una storia – o un Arcano Maggiore – all’altra. Così il dolore e la speranza di una giovane scrittrice si intrecciano con le ambizioni del suo sedicente agente letterario, e così quelle ambizioni si accodano e si infrangono tra i ricordi d’infanzia di un Re Mida del marketing, dell’informazione, dell’arte. Così la comparsa, il o la protagonista, in uno degli Arcani svelati da Forlani diventa protagonista o comparsa di un altro.
A unire tutte le cose, il tempo. O meglio l’assenza di tempo. O meglio ancora, il flusso del tempo che in qualche maniera è insieme tendini e muscoli del presente, ma è anche qualcosa capace di annientare passato e futuro lasciandoci una sola consapevolezza: che non tutti certo moriremo.
È un tempo sofferente quello che ci mostra Forlani. Nelle ventuno storie ci sono dolori enormi, ci sono speranze che evaporano, ci sono amori storti che finiscono prima ancora di cominciare. O che cominciano già finiti. Ma c’è anche una strana speranza. La speranza di chi sa di non avere uno scopo ma comunque lo cerca, lo desidera, lo inventa. Di chi lo compra in un discount, quello scopo, se lo incolla posticcio sulla vita a volte sfoggiandolo come fosse un trofeo altre volte vergognandosi di mostrarlo. Altre volte ancora avendone cura, proteggendolo affinché non si usuri, non si consumi.
È un tempo che non ha coordinate precise quello che ci mostra Forlani. Ma che ne ha persino troppe. C’è l’ombra di una guerra tutto intorno alle storie. Ci sono finestre – anzi no portali – sul nostro oggi. Portali che illuminano zone d’ombra, quelle zone in cui a volte preferiamo non guardare perché raccontano troppo di noi e soprattutto ci svelano troppo degli altri. Quelle zone che a volte pensiamo sia meglio non conoscere ma che sempre più, qui è oggi, qui e domani, qui e ieri dobbiamo imparare.
Perché sì, “non tutti certo moriremo”, ma imparare a vivere è un’altra cosa.
Lo puoi trovare qui: