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DI INTENTI, BULIMIA ARTISTICA E NECESSITA’

Tempo di lettura: 4 minuti

Ti chiesi io, Creatore, dall’argilla di crearmi uomo, ti chiesi io dall’oscurità di promuovermi…?

John Milton – Paradise Lost

Così chiede Adamo a Dio, secondo John Milton. Così chiede il mostro a Victor Frankenstein quando si interroga sul motivo della sua esistenza. E così dovrebbero chiederci i romanzi che scriviamo, i video che produciamo, le canzoni che componiamo. Se questo accadesse, se per una sorta di effetto alchemico le nostre produzioni artistiche acquisissero consapevolezza e ci chiedessero il perché della loro esistenza, noi cosa risponderemmo?

Ci sono precedenti illustri e nessuno di questi è finito nel migliore dei modi. Nel racconto Camion di Stephen King (pubblicato all’interno della sua squisita antologia A volte ritornano) i nostri manufatti su quattro ruote acquisivano consapevolezza e finivano con lo schiavizzare l’uomo, certi che la loro esistenza corrispondesse alla necessità di dominarci. In Mefistofele, lo straordinario albo speciale di Dylan Dog firmato dalla coppia Sclavi/Roi, un editore arriva a dover fare i conti con tutti i personaggi delle storie che non ha mai pubblicato e che per questo, in qualche maniera, chiedono conto del loro non-essere. Ecco, e se toccasse a noi dover giustificare l’esistenza dell’arte che produciamo? Se dovessimo vestire i panni di Dio e rispondere al “perché io sono qui” implicito nella domanda di Adamo? Temo la risposta sarebbe, in molti casi, deludente e suonerebbe più o meno cos’: tu sei qui, mio costrutto artistico, per il semplice fatto che ho la possibilità di crearti.

Perciò nessun intento. Nessuna motivazione. Nessuna necessità. Solo un atto di creazione vanesio che assomiglia tanto a quel potentissimo “Perché ce lo avete permesso” con il quale la coppia assassina di Speak No Evil svela i motivi del loro orrore. Posso farlo, mi è concesso, e quindi lo faccio. Posso scrivere e pubblicare un romanzi, perciò lo faccio. Posso comporre e pubblicare un video musicale, perciò lo faccio. Posso creare in punta di click quasi qualunque cosa, perciò lo faccio. Il vecchio ‘volere è potere ‘ si è capovolto nel tormentato presente di bulimia artistica, sostituito da un ‘potere è volere’ che determina i nostri passi artistici. E questo trova inquietante riflesso, per esempio, nelle statistiche letterarie.

Da qualche giorno vaga per il web il rapporto 2023 sullo stato dell’editoria in Italia ed è palese come le auto-pubblicazioni o gli editori a pagamento saturino, di fatto, il mercato. Migliaia di titoli che vendono poche copie (disclaimer: non ho niente contro l’editori self, anzi, ammiro molto gli autori selfi di qualità perché sì, ci sono autori self di grande qualità) ma che vengono affidati alle stampe (più o meno digitali) come puro e vanesio atto creativo. Perché? Perché manca una consapevolezza di quale sia il vero senso della creazione artistica. E sì, l’avvento della AI ha peggiorato le cose. Come?

Sempre di più vedo artisti interrogarsi su come utilizzare le AI per accelerare il processo creativo, per essere più veloci nell’immettere sul mercato cose nuove. Ma allora – e sì, mi vanto della mia ingenuità – è davvero tutto qui? Davvero l’intento artistico si è ridotto al produrre più in fretta storie? Perché se fosse così alla domanda “Perché esisto?” che un nostro romanzo ci rivolgerebbe noi non potremmo altro che rispondere “Perché potevo scriverti e l’ho fatto. Perché voglio poter dire di essere scrittore. Perché voglio vedere il mio nome su qualcosa che mi dia l’illusione di vincere la morte. Perché io, io, io.“. Non c’è nessun percorso, nessuna esplorazione, nessuna auto-censura di buon senso.

Solo una lunga, asfissiante, bulimica e dolorosa rincorsa. Dolorosa per noi, che crediamo così di risolvere i nostri quesiti esistenziali. Dolorosa per il mondo che sempre meno può sostenere – non pensiate che il costo della AI sia poca cosa, sia in termini energetici che ecologici – il nostro ego. E attenzione, non parlo di censura, di giurie di qualità. Parlo di urgenza, intento, necessità. Parlo dell’aver qualcosa da dire perché si vuole davvero dirlo, non perché si può farlo. Parlo del confrontarsi per primi con sé stessi in modo onesto, privo di pregiudizi, sincero e anche crudele. Davvero voglio fare ciò che sto facendo? Davvero nell’atto creativo non sto inseguendo sovrastrutture che mi sono state imposte da quel terribile ‘potere è volere’ tanto caro a un presente avido?

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