C’è un’isola di plastica alla deriva nell’Oceano Pacifico del Nord: è il Great Pacific Garbage Patch. Un accumulo di rifiuti grande tre volte la Francia che fluttua tra le Hawaii e la California. Al suo interno c’è di tutto: ci sono bottiglie, rottami, plastiche di ogni tipo. La sua natura eterogenea lo rende in qualche maniera manifesto di una comunità estremamente inclusiva: il Great Pacific Garbage Patch raccoglie materiali dall’Asia, dall’America del Nord e da quella del Sud. Unisce gli scarti di mezzo mondo e forse anche qualcosa di più.
Ha una bassa densità – si parla di 4 particelle per metro cubo – e questo lo rende pressoché invisibile ai satelliti oltre che difficile da individuare con precisione anche nel caso in cui ci si finisca in mezzo. Tra le sue maglie, tra le spire dei rifiuti che lo compongono, galleggiano microplastiche. Particelle minuscole che derivano dallo scioglimento progressivo dei rifiuti, una sorta di lenta fusione catalizzata dal sole e dalle condizioni estreme del Pacifico del Nord.
Perciò parliamo di una cosa vasta, enorme. Di una cosa che determina la sua identità partendo dalla progressiva dissoluzione di tutte le identità che la compongono. Il Great Pacific Garbage Patch diventa una sorta di nube statistica, misurabile sì, ma anche invisibile nella sua indeterminatezza quantistica. Questa macchia gigante attira tutto quello che a noi non serve più, lo seduce facendogli credere di poter essere parte di qualcosa di più grande e alla fine mantiene la sua promessa. Ma è un giuramento di smaterializzazione, è un’appartenenza che diventa dispersione, che sublima nella più totale perdita di sé. E, soprattutto, di ciò che si era.
Il Great Pacific Garbage è la più efficace e inquietante trasposizione ecologica di una generazione alla deriva: la generazione X. Una generazione a cui appartengono – per convenzione – i nati tra il 1965 e il 1980, preceduta da quella dei baby boomers per poi essere seguita dalla generazione Y. Una generazione composta da anime differenti capaci di mimetizzarsi, anime che tentano di imitare le ambizioni di chi è venuto dopo mutuando le rigidità e i preconcetti di chi è venuto prima. Una generazione smaterializzata, invisibile, che è stata attirata, decomposta e polverizzata in micro-particelle. Solo che a essere decomposta e polverizzata non è stata la materia plastica ma sono stati sogni, ambizioni, opportunità e occasioni. I sogni e le ambizioni di una fetta di quella generazione, la parte più alta, la coda finale di quegli anni ‘70 che per tratti, ossessioni e disillusioni si allunga anche verso i primi anni ’80 di fatto contaminando anche la generazione successiva. Creando una generazione nella generazione.
Non c’era, come non c’è mai, un Manuale delle Giovani Marmotte a cui rivolgersi per sopravvivere al cambio generazionale. Non c’era una guida che aiutasse a capire come stavano cambiando le cose. Ma c’erano alcune milestones evolutive da doppiare, tappe forzate di un viaggio che per cominciare doveva per forza passare da lì. La prima cosa da fare? Smaltire l’ubriacatura del boom economico, del tutto è possibile, del qui e ora. E poi? Poi bisognava fare i conti con una generazione – quella dei baby boomers – molto concentrata su sé stessa ed ebbra di un successo che, nessuno o quasi lo aveva ancora capito, era destinato a estinguersi. Come un dinosauro che guarda negli occhi il meteorite sicuro di poterlo schivare, certo che basterà fare un piccolo balzo di lato per evitare la catastrofe.
E poi tutto intorno c’era il mondo. Un mondo strano, fluido, caotico. La caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, i Troubles irlandesi, la guerra in Kuwait, la guerra in Jugoslavia, Falcone e Borsellino, Mani Pulite e la sensazione che per noi, quel frammento generazionale nato tra il 1975 e il 1985, tutto fosse troppo. O che noi non fossimo abbastanza per capire i movimenti magmatici di una società che stava cambiando pelle e che indossava sempre più spesso una tuta a stelle e strisce la cui stoffa proveniva da oltre oceano. I baby boomers si compiacevano del successo e si preoccupavano che restasse loro, forse più di quanto si preoccupassero di noi, di quelli che bussavano alla porta in punta di piedi. Quelli a cui avrebbero dovuto lasciare se non un mondo migliore, almeno un mondo comprensibile, un usato sicuro. Magari non smagliante, magari non sfavillante ed eterno, ma almeno abbastanza solido da non sgretolarsi sotto i colpi delle nuove tecnologie e soprattutto dei lampi culturali che a metà di quegli anni ’80 si addensavano minacciando ben più che un semplice temporale.
Ma quando è cominciato tutto? Che cosa ha permesso al primo aggregato casuale di raggiungere la sua massa critica? Di dotarsi di una gravità forte abbastanza da attirare altri verso il centro di quell’oceano generazionale? Che cosa, in sostanza, ha posato il primo mattoncino plastico del nostro Great Pacific Garbage concettuale?
Il punto di partenza sono state le promesse. Promesse scolpite su diari e quaderni, sulle classifiche dei cabinati in sala giochi, sulle musicassette da edicola che racchiudevano al loro interno decine di giochi per il Commodore 64. Promesse sbocciate dalle gemme di generi cinematografici che per la prima volta portavano il fantastico fuori dai videogame e dalle pagine dei libri. Promesse, anche, di un tempo che stava cambiando ma che forse non avrebbe dovuto cambiare perché nessuno voleva davvero lo facesse. Una parte di noi – quella che ha allungato la propria sensibilità in avanti, verso la generazione successiva – a quelle promesse ha creduto e ha tentato, spesso senza grandi fortune, di costruirci una vita attorno. Un’altra parte – quella con i piedi ben piantati nel successo fossile del boom – a quelle promesse è rimasta insensibile raccogliendo il testimone dei boomers fino a rinnegare dolori e possibilità della propria generazione.
Questo siamo noi nati tra il 1975 e il 1985: un coacervo bipolare intrappolato tra le spire del passato e le onde statistiche del futuro. Lo vedo scorrendo le bacheche dei social network, lo vedo setacciando le vite analogiche dei miei ex compagni di scuola, lo scopro allungandomi in avanti di qualche anno, leggendo e studiando i sogni digitali della generazione Y. Molti di quelli che sono cresciuti insieme a me nella periferia della periferia – abito in un piccolo paese satellite di Reggio Emilia – non usano i social o li navigano con la diffidenza di chi deve usare qualcosa che non gli interessa. Hanno affrontato la rivoluzione digitale con tutte le resistenze dei baby boomers e hanno replicato le dinamiche di quelli che sono venuti prima. Per loro le promesse tutte glitter, fantasia e immaginazione degli anni ’80 sono finite con la discoteca, il primo motorino (o scooter), il primo impiego. La potenza del sogno, dell’addestrarsi a inventare mondi, del credere che l’essere nerd poteva davvero cambiare le cose, tutto questo non li riguarda più. Le promesse le hanno viste passare ma non ci hanno creduto. E adesso, al massimo, ne chiacchierano con nostalgia davanti a una birra canticchiando le sigle dei vecchi cartoni animati.
Poi ci siamo noi, quelli attratti dal Garbage oceanico, vittime predestinate della smaterializzazione. Quelli che alla rivoluzione hanno creduto, che hanno iniziato a sognare con Luke Skywalker e che hanno continuato a farlo tra le pagine dei fumetti DC o Marvel, quelli che avevano paura di Freddy Krueger e che sognavano di “difendere la frontiera contro Xur e l’armata di Ko-dan!”. Quelli che hanno accolto la rivoluzione digitale, che hanno abbandonato le consolle in favore dei primi personal computers. Quelli che hanno continuato ad addestrare la loro immaginazione convinti che prima o poi il mondo che gli era stato raccontato negli anni ’80 sarebbe diventato realtà.
Abbiamo iniziato a lavorare alla fine degli anni ’90, o nei primi anni 2000, con la testa intossicata dal boom ma il cuore ancora incatenato alle promesse di quegli anni ’80 dove il sogno non era un passatempo, ma una prospettiva. Ed è lì che è iniziata la nostra doppia vita, ed è proprio lì che il Garbage ha preso forma iniziando a trascinarci, uno dopo l’altro, verso la deriva. Perché come i supereroi con cui siamo cresciuti abbiamo sviluppato una doppia identità. Divisi tra il lavoro – il lavoro materiale, quello concreto, quello che il boom aveva confezionato per noi – e il coltivare quelle prospettive oniriche che hanno concimato la nostra giovinezza, siamo cresciuti e invecchiati. Dopolavoristi, vittime del volere e potere, periferici rispetto al cuore pulsante della generazione Y e lontani anni luce della generazione Z, non eravamo già più i bersagli dello “Stay hungry, stay foolish” di Steve Jobs.
Eppure abbiamo continuato a credere agli anni ’80, alle loro promesse, al dolce veleno che ci avevano (hanno) versato nelle orecchie. Anche quando il Garbage cominciava a mietere una vittima dopo l’altra, anche quando inghiottiva sogni e speranze per trasformarli in sopravvivenza, ci credevamo. Abbiamo iniziato ad assumere tecnologia come fossimo un dottor Jekyll al contrario. Come se i computer, internet, i social e gli smartphone fossero una pozione capace di sedare i sogni diurni di Mister Hyde per poterli scatenare la notte. Nel frattempo, invecchiavamo. E quando il mondo si è complicato e aperto allo stesso tempo, ci siamo ritrovati quarantenni.
Cosa potevamo fare? Se da una parte condividevamo ambizioni e sofferenze della generazione Y,
dall’altra le nostre vite erano coccolate da quel boom subìto e mai amato. Dai dogmi del passato. Da una stabilità che aveva finito con l’essere insieme prigione e garanzia. Dunque se avessimo voluto assecondare le promesse di una vita, i sogni di celluloide di quegli anni ’80, avremmo dovuto buttare via tutto e levarci dalle spalle dieci anni per (ri)appartenere a un mondo che però correva veloce e che era impossibile raggiungere correndo solo di notte. Jekyll aveva ormai assorbito buona parte della nostra giornata e Hyde, rancoroso e sommerso, ripiegava nelle periferie del tempo libero. Così mentre il cuore della generazione Y soffriva e lottava nella ricerca del suo spazio, mentre l’avanguardia della generazione Z cercava di gettare le basi per un nuovo modello di vita fatto di precariato, incertezza e creatività, noi stavamo a guardare.
E quasi senza rendercene conto siamo diventati parti del Garbage. Siamo quelli con così tanti interessi da non riuscire ad averne davvero mai nessuno. Siamo quelli che lavorano tra le spire appiccicose del boom, che magari non hanno figli. Siamo quelli che scrivono, che leggono, che divorano storie perché l’amore per le storie ci ha portato fino a qui, tracciando un sentiero che poi è sparito nella polvere. Siamo incapaci di abbandonare l’eredità della generazione che ci ha preceduti e non siamo abbastanza forti da raccogliere il testimone della generazione che è venuta dopo. Perciò galleggiamo. Destrutturati. Consapevoli che per il mondo, a quarant’anni o poco più, non c’è spazio per le incertezze o per i sogni tardivi. La via è segnata, il percorso è quello intrapreso e le armi per la ribellione, se ribellione doveva esserci, andavano impugnate prima. In quel prima che per noi invece è stato dominato dalla seduzione del boom.
Perciò galleggiamo nel Garbage. I sogni polverizzati, la stabilità assunta come droga per continuare a sedare il nostro Mister Hyde interiore. Vaghiamo nelle acque delle periferie creative, attratti da un Mondo centrale che sembra avere infinite potenzialità ma che ci risulta sempre più difficile raggiungere. E allora ascoltiamo podcast, leggiamo libri, improvvisiamo canali YouTube o profili Instagram con l’ingenuità di chi i suoi sogni li ha visti nascere in VGA, a 256 colori. Destrutturiamo la nostra creatività, sempre in rincorsa, sempre in ritardo, sempre con un addestramento poco efficace e con armi spuntate. I più tenaci tra noi resistono al Garbage rendendo più densa la loro identità in modo che non si dissolva, che non si polverizzi in mezzo alle altre. Tutti gli altri si ritroveranno alla deriva nel Garbage ricordando di sé – del loro sé antico, primordiale – solo due cose: che amavano i sogni e che amavano le storie.
Ma che quei sogni e quelle storie saranno sogni e storie di altri.