“Ma se i vedenti diventavano ciechi, allora i ciechi – e, per qualche strana ragione, io mi sono sempre considerato un cieco – …i ciechi diventavano vedenti. Mi ricordo che mi sentivo a mio agio nella nebbia, felicemente a mio agio nelle tenebre e nell’oscurità che tanto confondevano il mio prossimo.”
Dennis “Spider” Cleg è abituato a nascondersi. Lo ha imparato in fretta per non innescare la rabbia di sua padre Horace. Quelle cene silenziose fatte di nebbia, di rumori ovattati del non essere visti. Perché attirare l’attenzione di Horace non era mai una buona idea.
Dennis ha anche imparato che i contorni sfocati potevano essere una benedizione se la compagnia era quella giusta: quei contorni li riempiva con la fantasia, giocando con la madre, unica ancora di bontà in una casa, in un quartiere – quello di Kitchener Street – e in una città – la Londra del dopoguerra – che di buono aveva ben poco.
“Incomincio a scrivere […]. Quando ciò accade, io ho la curiosa sensazione non di scrivere, ma di essere scritto, una sensazione che è giunta a provocare in me brividi di terrore, deboli all’inizio ma sempre più forti di giorno in giorno.”
Parla di sé, Spider. Lo fa attraverso le pagine del suo diario, pagine alle quali affida il passato, il presente e l’idea di un futuro molto difficile da sperare. Scrive, Spider. E nello scrivere stringe un patto con noi, con la signora Wilkinson, con le anime morte che abitano la bettola in cui vive, con suo padre, con sua madre, con Hilda e con una quartiere che si avvolge su di lui fino a soffocarlo.
Perciò il diario diventa una vera e propria ragnatela. Un tessuto i cui fili tesi vibrano a ogni ricordo, fremono sotto il peso delle memorie e nel tendersi, nell’intrecciarsi, nel tremare attirano Spider stesso fuori dal passato nel quale si è rifugiato. Spider. Che quella tela l’ha costruita. Ma che di quella tela è prigioniero. Proprio come noi.
Lo puoi trovare qui: