1. Nel diritto pubblico, atto sovrano o legge che attribuisce a un soggetto o a una categoria di soggetti una posizione più favorevole di quella della generalità degli altri soggetti; anche la posizione stessa, in sé considerata.
DEFINIZIONE DI “PRIVILEGIO”
Non sono sicuro sia una buona idea avventurarsi nella selva oscura che nasconde tra i suoi rami e tra le sue ombre gli intrecci dei tre pezzi da novanta che ho calato nel titolo di questa riflessione, ma ho letto e ascoltato così tanto a riguardo che è diventato inevitabile, per me, fare un punto e provare a mettere nero su bianco qualcosa. Il mio punto di partenza? Il fatto che privilegi, inclusione e politically correct non sono binari solitari che viaggiano per contro proprio. E soprattutto la definizione di ‘privilegio’ qui sopra riportata.
Normalmente chi gode di qualche privilegio ne è consapevole. Chi è ricco sa di esserlo, ed è consapevole dei vantaggi che derivano da questa condizione economica. Chi fa politica sa – e a volte sfrutta – il non essere esattamente un cittadino comune (al netto dei proclami e di tutto il chiasso da campagna elettorale permanente). Ma negli ultimi anni, con un approccio più critico a disposizione, con una globalizzazione culturale più a portata di mano, la faccenda dei privilegi si è assai complicata. Perché, e ne sono sicuro, tutti godiamo di privilegi di cui fino a poco tempo fa non ci rendevamo conto. Anzi, molti di noi anche adesso faticano a identificarsi come portatori ‘sani’ di privilegi.
Sono quei privilegi che derivano da un’egemonia culturale inconsapevole (voglio essere chiaro in questo, non è mio interesse attribuire responsabilità ma solo ragionare a voce alta sullo stato delle cose, perciò anche chi è animato dalle migliori intenzioni deve fare i conti con l’inconsapevole effetto dei privilegi che ha), dal fatto che chi raccontava il mondo attraverso i libri, i film e gli altri media aveva un punto di vista inevitabilmente di parte. Un punto di vista secolare forgiato all’interno di ecosistemi poco permeabili che raccontavano la loro realtà e il loro presente con gli strumenti disponibili in quel momento. Questo ha creato uno squilibrio – a volte anche in buona fede se vogliamo – uno squilibrio, dicevo, che si riflette in archetipi narrativi occidentali. Stati sociali, colore della pelle, cliché tematici che volevano certe figure all’interno di certe caselle. Dinamiche che rendevano certe battute sull’orientamento sessuale o sul colore della pelle ben più che accettate, anzi. Erano fotografia della società di quell’epoca e in questo senso, seppure in modo greve, immagino non ci fosse malizia nella loro messa in scena. Forse ignoranza, forse poca curiosità, forse il desiderio di parlare un linguaggio comune senza la pretesa di innescare riflessioni o di offrire punti di vista nuovi. All’epoca non lo sapevamo, non avevamo gli strumenti, non c’era occasione di toccare con mano gli effetti di una società intrisa di privilegi che, forse inconsapevole, evitava le responsabilità derivate da questi stessi vantaggi. Perciò non faccio mia la durezza di chi stigmatizza quel passato: era così, era figlio dei suoi tempi.
Ma oggi non è più così. Oggi il politically correct – definizione spesso impugnata come fosse un bavaglio mentre io credo che non offendere sia alla base di una società che si vuole definire democratica -, l’inclusività e la percezione di avere privilegi anche solo per essere bianchi, etero, maschi e occidentali non sono temi oscuri, da rivoluzione d’Ottobre o da sovversivi. Oggi queste cose le sappiamo. E allora io penso che se è possibile raccontare una storia cambiando il colore della pelle o il sesso dei protagonisti senza stravolgere le intenzioni dell’opera originale oppure interpretando quelle intenzioni e illuminandone il senso nella narrazione, ecco se tutto questo è possibile, farlo è un DOVERE.
Perciò le stucchevoli polemiche su Eto Demerzel diventato donna nell’adattamento de La Fondazione di Asimov, sugli elfi neri della prossima serie sul Signore degli Anelli, su alcuni cambiamenti rispetto all’immaginario estetico di Sandman, sulle fiabe Disney riviste in chiave inclusiva, tutte queste levate di scudi sono, secondo me, resistenze naturali (ma di cui oggi DOBBIAMO essere consapevoli) di una ‘categoria di soggetti’ che non vuole perdere i suoi privilegi. Privilegi che derivano dall’essere bianchi, etero, maschi e occidentali. Privilegi senza colpa, è vero, ma anche senza merito. E non è una mania, quella dell’inclusività, non è uno “sforzo a tutti i costi” da affrontare alzando gli occhi al cielo e sogghignando. È, sempre secondo me, una necessità. Un modo per acquisire consapevolezza. E anche liquidarlo come uno stratagemma commerciale per raccogliere più pubblico, di nuovo, è la finta verità che chi detiene i privilegi si racconta per poter continuare a pensare di non goderne, di questi privilegi. Pur sfruttandoli con alzate di sopracciglia, battute e linguaggio.
Non affronterò qui il tema di prodotti di intrattenimento che sfruttano un’ambientazione storica stravolgendo la realtà a cui si riferiscono per poter affrontare temi contemporanei. Questo è un altro discorso, qualcosa che ha a che fare con il desiderio di veder affrontati temi contemporanei sfruttando chiavi narrative differenti, anche in epoche differenti, concedendosi licenze. Avevo un’idea, in merito, ma mi sono reso conto era parziale. Perciò ci sto girando un po’ intorno: magari ne parleremo.