Ho l’impressione, ma sono pronto a essere smentito in qualunque momento, che si stiano creando due fazioni. Due fazioni che trovano risonanza sia tra chi è un semplice fruitore di opere narrative (veicolate attraverso qualunque media), sia tra chi queste opere le crea. I narratori, per intenderci. Attenzione, non si tratta di fazioni antagoniste. Per una volta non c’è nessun conflitto in corso e nemmeno la volontà degli uni di prevalere sugli altri. A cosa mi sto riferendo? Al modo di raccontare le storie.
Da una parte noto la tendenza a dare poca importanza agli inneschi narrativi, cioè a quegli eventi/situazioni/comportamenti che POI determinano lo sviluppo della narrazione. Una particolare azione, un particolare scambio di battute, scelte che prese nel loro contesto possono apparire poco credibili: tutte queste cose innescano quello che verrà dopo ma lo fanno – passatemi il termine – lo fanno perché devono. Cioè non è importante la coerenza interna, non è importante la credibilità o la verosimiglianza di questi inneschi. È importante SOLO quello che creano. Le dinamiche che scatenano. E va detto che poi, molto spesso, le dinamiche sono interessanti. Però resta la sensazione di qualcosa di posticcio. Di non perfettamente centrato perché queste dinamiche sono al centro di una narrazione a volte respingente. O meglio, una narrazione che chi cerca coerenza negli inneschi trova respingente. Questa fazione – la voglia chiamare degli ‘emotivi‘? – non ha tempo da perdere con il come perché è decisamente più interessata a cosa succederà dopo quel fatidico come e a cosa quel come scatena.
Faccio qualche esempio? Lo faccio. “Non siamo più vivi“, serie coreana a tema zombie trasmessa da Netflix, è una dimostrazione lampante di una qualità dubbia dell’innesco. La coerenza scientifica, le stesse decisioni di alcuni dei protagonisti, in sostanza il motore di base della storia più di qualche volta fa storcere il naso. O meglio (lo ripeterò spesso), fa storcere il naso a chi cerca coerenza negli inneschi. Poi, però, le dinamiche che vengono create funzionano, e funzionano alla grande. Un altro esempio? “L’indice della paura“, mini-serie tecno-thriller in onda su Sky. Qui gli inneschi narrativi fanno acqua da tutte le parti eppure gli effetti di questi inneschi funzionano (meno che in “Non siamo più vivi”, a dirla tutta). Terzo esempio? “Pacific Rim“, capolavoro visivo di Guillermo del Toro che però zoppicava nelle pretese tentando di spacciarsi forse per più serio di quello che era.
L’altra fazione – la vogliamo chiamare quella dei ‘precisi‘? – è invece attentissima agli inneschi perché li considera parte integrante di quello che verrà dopo. Ma questo integralismo narrativo ha un prezzo. Costringe chi guarda – ma soprattutto chi crea – a precludersi alcune strade perché troppo sbrigative o banali. Una coerenza totale tra azione e reazione, un tentativo di dare verosimiglianza scientifica, di offrire inneschi coerenti con le azioni dei protagonisti, di non perdonare scorciatoie. E attenzione, non sto parlando di coerenza estetica col contenuto (questo è un altro aspetto di cui magari parleremo un’altra volta), ma di coerenza degli inneschi. Questa fazione ritiene che il come siamo arrivati a una situazione e lo sviluppo di quella stessa situazione abbiano uguale importanza. E crede che i due elementi debbano procedere in modo armonico.
Semplifico. Agli empatici non interessa come gli studenti di “Non siamo più vivi” si siano ritrovati rinchiusi in un’aula. E non interessa nemmeno se hanno fatto cose stupide o poco logiche. Interessa come reagiranno adesso alla situazione in cui si trovano. Viceversa la fazione dei precisi prende atto che i ragazzi della scuola non avrebbero dovuto essere lì perché ci sono finiti in seguito ad alcuni inneschi forzati.
Lo so cosa stanno pensando molti di voi. Che schierarsi è facile. Che non si può non tifare per i precisi. Ma la realtà non è esattamente questa. In generale, in tutti gli ambiti narrativi, la mia impressione è che sempre meno si presti attenzione agli inneschi (ovviamente non parlo di cose che non funzionano in modo clamoroso) per favorire quello che viene dopo. Che il come sia sempre meno interessante. Sono effetti di una bulimia da presente oppure si tratta di una saggia evoluzione psico-narrativa che spinge a spostare il focus sulle emozioni e sulle reazioni, mettendo da parte il come si è arrivati allo scatenare emozioni e reazioni? Come si dice in questi casi, ai posteri l’ardua sentenza.
Voi a che fazione appartenente?