Gli americani da sempre tendono a ovattare tematiche sociali complesse o che si prestano a chiavi di lettura potenzialmente molto crude. Hanno una predilizione per il lieto fine e quasi mai, davanti a una scelta realistica ma cruda che si contrappone a una più buonista è politically correct scelgono la prima ipotesti.
Alcuni registi, poi, sono più propensi a ottundere la realtà, mentra la reinterpretano girando i loro film. Zemeckis, pur essendo capace di prodigi, non è di sicuro uno dei cineasti più coraggiosi di cui dispone Hollywood ma questo suo limite era sempre rimasto in secondo piano. Se diamo un scorsa ad alcune sue opere, per esempio ‘A Christmas Carrol’ (2009) – ‘Cast Away’ (2000) – ‘Forrest Gump’ (1994) – ‘Ritorno al futuro’ (1985), scopriamo che si tratta sì di grandi film, ma che giocano comunque su personaggi e tematiche marcatamente positive.
In ‘Flight’ Zemeckis gioca un po’ d’azzardo incentrando tutto sul grave problema delle dipendenze.
Whip Whitaker (Denzel Washington) è un capacissimo pilota di voli civili ma è anche un alcolizzato dedito all’uso di droghe. Dopo una notte brava passata in compagnia di una collega hostess, l’aereo da lui pilotato ha un gravissimo guasto per mancanza di manutenzione e precipita. Solo grazie alla sua capacità (e forse anche all’euforia dettata dall’abuso di alcol) viene limitata la tragedia e solo pochissimi passeggeri perdono la vita, evitando la catastroge. Ma gli esami del sangue dimostrano che durante il volo non solo lui era ubriaco, ma anche intossicato da cocaina. Inizia perciò un tentativo di recupero personale che si snoda parallelamente alle indagini sul disastro aereo.
Zemeckis perciò mette in campo un personaggio decisamente grigio: da un lato la sua manifesta dipendenza (Denzel Washington è bravissimo, su questo non v’è dubbio alcuno), dall’altro il tentativo di uscirne e per ultimo il dubbio (mai del tutto esplorato fino in fondo) che grazie all’euforia alcolica sia stato in grado di compiere una manovra altrimenti impensabile. La struttura narrativa regge, anche se punta in diverse direzioni senza prenderne mai nessuna fino in fondo. La breve relazione di Whip con un tossicodipendente in cerca di redenzione non è chiarissima, nel suo intento. E il ruolo del pusher Harling Mays (John Goodman), seppure divertente, sbiadisce ancora di più il confine tra bene e male allontanando lo spettatore da una sana presa di posizione.
Zemeckis tenta di indurire la propria indole quando Whip ricade, proprio nel momento più importante della sua vita, nella spirale di dipendenza. E’ una belle sequenza, che lascia qualche incertezza nella sorpresa, ma che viene vanificata del regista immediatamente dopo, cancellando quell’incrudimento emotivo che era stato capace di creare.
Il finale è esattamente come avevo anticipato all’inizio di questa recensione: buonista e politically correct. Sia in termini di evoluzione del personaggio che in termini di parabola narrativa.
E’ quello che avremmo voluto vedere? Da un certo punto di vista, certo che sì. Ma è quello a cui un film che affronta tematiche così alte (e basse) dovrebbe aspirare? No.
Quello che mi è mancato e una mano più ferma e una scrittura indirizzata verso il realismo. Qualche regista europeo, Bayona o Laugier che si sono sdoganati dall’horror con convinzione, avrebbero avuto un coraggio differente. Meno morbido, ma di sicuro più sincero.
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